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«Quei bambini che si vergognano perché non hanno internet e non possono seguire le lezioni online»

07/05/2020
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da Open online

di Riccardo Liberatore

La scuola italiana è la grande sacrificata nell’epidemia del Coronavirus. Non è stata la prima ad essere travolta dallo tsunami di contagi, ma probabilmente sarà l’ultima a riaprire dopo i bar, i ristoranti e i parrucchieri. Questo perché – così è stato detto dal Governo – rappresenta un rischio di contagio troppo elevato, aggravato anche dall’età avanzata di molti docenti. Così ci si è affidati alla didattica a distanza, tra mille problemi e contraddizioni. Non ultima quella del digital divide, come viene chiamata la crepa che è andata aumentando tra chi “ha” e chi “non ha” accesso ad alcuni beni che dovrebbero essere primari, ovvero il web o l’apparecchiatura tecnologica come i pc e i tablet.

I dati in questo senso sono profondamente sconfortanti. Ci ha pensato l’Istat a tracciare il confine della disuguaglianza, avvertendo che soltanto una famiglia su tre (33,8%) in Italia dispone di almeno un computer per ciascun componente. Un dato che al Sud è ancora peggiore: 4 famiglie su 10 sono senza computer in casa. Sempre secondo l’Istat (dati 2018-2019) la percentuale più alta sarebbe in Calabria, dove oltre il 45% delle famiglie non gode di questo vantaggio. Un numero altissimo. Per sopperire a questo problema il Governo ha messo a disposizione di tutte le Regioni circa 85 milioni di euro con il Decreto Cura Italia, di cui ne sarebbero già arrivati 70. Questo si traduce in circa 10mila euro per una scuola media con circa 800 alunni: una cifra non sempre sufficiente per fornire una strumentazione adeguata. Per andare avanti con la didattica a distanza molte scuole – circa il 95% in Calabria – hanno dovuto svuotare i propri laboratori.

Eppure nella regione gli studenti senza dispositivi sarebbero almeno 12mila, pari a circa il 6% del totale. A questo problema si somma quello dell’accesso all’internet: tutt’altro che scontato in alcune zone interne della Regione. Ma anche quando gli aiuti sono presenti, non sempre si riesce a recapitarli con facilità alle famiglie in difficoltà, come spiega Carmen Aiello, docente all’Istituto Comprensivo Aldo Moro a Guardavalle in Provincia di Catanzaro. Una testimonianza, la sua, non soltanto indicativa ma anche rappresentativa, visto il numero di studenti che hanno riscontrato delle difficoltà nel seguire le lezioni da casa, della situazione delle scuole locali.

Professoressa, avete riscontrato molte difficoltà nella transizione alla didattica a distanza?

«Inizialmente non si capiva cosa dovevamo fare, ma abbiamo pensato che si tratta di ragazzi che vivono già uno svantaggio socio-culturale non indifferente, quindi non era il caso di lasciarli soli. Non sapevamo quanto sarebbe durato, ma ci eravamo sentiti tra di noi per capire cosa fare. Dopo poco è arrivato l’annuncio del Ministero che ufficializzava la didattica a distanza, però senza alcuna indicazione. La vera difficoltà è stata capire esattamente come fare: ho 40 anni e non ho avuto nessun problema, ma penso ad alcuni colleghi più vicini alla pensione che non avevano mai fatto questo tipo di lavoro. Per fortuna la voglia di mettersi in gioco è stata molta»

Sono arrivati i finanziamenti predisposti dal Ministero? 

«Il nostro preside aveva già fatto l’acquisto dei tablet – 30 in totale – poche settimane dopo l’annuncio, verso la fine di marzo. Inoltre abbiamo subito distribuito i computer che avevamo già in dotazione. I tablet sono arrivati praticamente subito ed immediatamente è stato fatto il bando. Adesso ci saranno delle altre possibilità per chi è rimasto fuori, magari perché è stato usato il metodo dell’Isee per distribuirli. Il Consiglio d’istituto aveva stabilito che nel limite di un Isee massimo di 15mila euro ci sarebbe stata una graduatoria. Quelli che arriveranno verranno probabilmente distribuiti tra le famiglie dove ci sono più figli a casa»

Ci sono tuttora studenti che non possono seguire la didattica a distanza?

«Il primo mese ci sono state le difficoltà maggiori: erano una decina gli studenti non in grado di seguire le lezioni su un totale di quasi 140 alunni. I motivi erano vari e non necessariamente legati alla strumentazione. Alcuni erano in difficoltà perché non avevano abbastanza giga, per esempio, soprattutto chi non vive in paese. Abbiamo cercato di risolvere il problema riattivando la vecchia connessione internet della scuola, però non è stata una cosa immediata anche perché alcuni di loro disponevano di un solo telefonino per nucleo familiare»

Ci sono stati anche casi di irreperibilità?

«Si, con due o tre alunni. Quando noi insegnanti abbiamo visto che la situazione era questa, abbiamo prima contattato le famiglie, e poi ci siamo attivati attraverso il dirigente. In alcuni casi sono anche venute fuori scuse banali come la mancanza di concentrazione e di volontà, soprattutto tra i più piccoli e nelle prime classi delle scuola media»

Dopo circa un mese di didattica a distanza ci sono altre difficoltà a cui andate incontro? Quali sono invece gli aspetti positivi? 

«L’aspetto positivo è stato scoprire che da parte di alcuni alunni questa fase è stata vista come un momento di riscatto. Se penso alla mia classe, che ha 16 alunni, sono stati proprio gli studenti che prima avevano meno voglia di barcamenarsi a partecipare più attivamente. A livello dei docenti, quello che manca è la formazione. Ogni scuola ha fatto da sé: i miei colleghi si sono affidati a me e ad un collega informatico, ma non è arrivata alcuna formazione dall’esterno. Ciò ha comportato anche grande confusione rispetto alle piattaforme che venivano scelte, tra chi usava Whatsapp, chi Zoom e chi Google Classroom. Da quando facciamo le video-lezioni, però, va molto meglio»

Quando sono iniziate?

«Io le ho iniziate praticamente subito con Zoom – sono stati gli stessi studenti a chiederlo. Dicevano: quando ci vediamo? Per loro è stato un momento importantissimo»

Per quale motivo? 

«Abbiamo assistito a due reazioni diverse. In alcuni casi i ragazzi sono stati entusiasti di potersi rivedere, di poter interagire tra loro e con noi, di poter fare domande – spesso anche sul momento particolare che stiamo vivendo. In altri, invece, non è andata così: alcuni colleghi mi hanno raccontato di aver incontrato difficoltà con alunni che, ad esempio, non volevano mostrarsi in video, per pudore o perché si sentono inadeguati»

Avete riscontrato questo sentimento anche tra coloro che non avevano accesso alle lezioni?

«All’inizio alcuni si vergognavano di ammettere di non avere i mezzi per seguire le lezioni, e noi docenti abbiamo scoperto delle loro difficoltà grazie a chi gravitava attorno alle famiglie. Una ragazzina che non aveva il telefono e usava quello della mamma, ad esempio, ha addirittura preferito far passare il messaggio che non faceva i compiti perché non le andava anziché spiegare il motivo reale. C’è stata vergogna nel chiedere aiuto anche da parte degli stessi genitori: uno non voleva fare nemmeno la richiesta del tablet, quasi che chiedere un aiuto esterno rappresentasse una macchia per l’intera famiglia. E’ normale che in una situazione del genere anche i ragazzi abbiano avuto la tendenza a nascondersi»

Guardando anche alla Fase 3, le sembra una modalità di insegnamento sostenibile? 

 «La mole di lavoro è aumentata moltissimo per noi docenti – io stessa lavoro più del doppio di prima, perché la didattica a distanza richiede uno sforzo di progettazione in più rispetto a quella in aula. Alla fine, però, vogliamo tornare in classe soprattutto perché i ragazzi hanno bisogno di sentirci vicini, di vederci realmente e di stare insieme tra loro. In realtà come le nostre si potrebbe fare: io, ad esempio, insegno in una classe molto ampia che ospita soltanto 15 alunni. Bisognerebbe responsabilizzare le scuole e portarle a sviluppare un piano per organizzare la propria didattica, invece ci viene detto “metà dentro, metà fuori”».