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346 milioni in più nelle casse delle università. Ma è un’illusione ottica

Il Fondo di finanziamento ordinario passa da 6,9 a 7,3 miliardi. Ma questo aumento del 5% è interamente vincolato a una serie di misure straordinarie che non accrescono di un centesimo le disponibilità degli atenei per le spese ordinarie

23/08/2018
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Corriere della sera

Orsola Riva

Un’illusione ottica. Ecco cos’è. In apparenza quest’anno nelle casse delle università italiane entreranno ben 346 milioni di euro in più. Il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) passa infatti da 6,981 miliardi a 7,327 miliardi abbondanti: un aumento del 5 per cento. Ma in realtà questi soldi non si tradurranno in una maggiore disponibilità per coprire le spese correnti, perché sono vincolati a poche, specifiche voci di spesa straordinaria. A chiarire come stanno realmente le cose ci ha pensato il Cun, l’organo di rappresentanza del sistema universitario che era chiamato a pronunciarsi sul criterio di riparto del Ffo e che, dopo un accurato vaglio delle poste di bilancio, ha licenziato il suo parere «favorevole» ma con osservazioni e raccomandazioni.

Somma invariata

«L’incremento finanziario totale, pari a circa 346 milioni di euro, - fa notare il Consiglio universitario nazionale - è anche quest’anno interamente destinato a interventi specifici vincolati (principalmente relativi ai dipartimenti di eccellenza) mentre la somma di quota base, premiale e perequativa rimane sostanzialmente invariata». Ferma a 7 miliardi di euro contro i 24 della Francia e i 30 della Germania. Un sotto finanziamento cronico che «non è sufficiente a gestire le esigenze del sistema dell’istruzione superiore e della ricerca, così da poterne garantire il corretto funzionamento anche in un’ottica di comparazione internazionale», nota ancora il Cun.

271 milioni per i dipartimenti di eccellenza

Dove finiscono tutti quei soldi in più? La fetta più grossa, spiega appunto il Cun, se ne va per i cosiddetti «dipartimenti di eccellenza», il discusso provvedimento varato dal governo Renzi nel 2016 che istituisce un fondo quinquennale da 1,3 miliardi (271 milioni l’anno) a decorrere proprio da quest’anno destinato a premiare i nostri centri di ricerca più avanzati. Una misura che ha ricevuto una pioggia di critiche di metodo e anche di merito. Di metodo perché la selezione dei 180 dipartimenti più meritevoli è stata fatta, pur con molti rimaneggiamenti successivi, partendo dalla contestatissima valutazione della qualità della ricerca redatta l’anno scorso dall’Anvur («una roba assurda», l’ha definita l’ex ministro Carlo Calenda). Di merito perché di fatto accentua, anziché attenuare, lo svantaggio drammatico degli atenei meridionali (a fronte di 106 dipartimenti del Nord premiati, al Sud solo 25 avranno diritto a spartirsi la torta con gli altri). Anche se, in attuazione a quanto previsto dal decreto per il Mezzogiorno varato dal governo Gentiloni a giugno 2017, il Ffo 2018 prevede precise misure perequative, a partire da un nuovo sistema di calcolo del cosiddetto «costo standard per studente» che tiene conto del reddito medio familiare della Regione dove ha sede l’università e dell’effettiva capacità contributiva degli iscritti.

50 milioni per i mancati scatti stipendiali

La seconda importante voce di spesa che si mangia altri 50 milioni dopo i 271 dei dipartimenti di eccellenza è rappresentata - scrive il Cun - dal «ristoro una tantum per il congelamento degli scatti stipendiali del quinquennio 2011-15». Come tutti gli altri settori della pubblica amministrazione, anche l’università ha subito il blocco dei contratti varato dal governo Berlusconi nel 2010 e confermato dai successivi governi Monti, Letta e Renzi per salvaguardare i conti dello Stato. La questione è stata ed è ancora oggetto di un lungo braccio di ferro fra docenti universitari e governo che si è tradotto in due scioperi degli esami indetti una prima volta nell’autunno scorso per chiedere lo sblocco degli stipendi (poi varato dal governo Gentiloni a dicembre) e una seconda a giugno di quest’anno per protestare contro il mancato riconoscimento almeno a livello giuridico dell’anzianità maturata nel periodo del blocco.

Ma per gli aumenti retributivi non c’è una lira in più

I 50 milioni in più del Ffo bastano appena a dare a ciascun professore circa 2.000-2.500 euro a titolo di compensazione per i mancati scatti ma - spiega il Cun - nell’ultima legge di Bilancio «non vi è traccia di finanziamenti aggiuntivi per sostenere gli oneri legati agli aumenti retributivi del personale che, almeno in parte già dal 2016 e in misura maggiore dal 2018, fanno sentire i loro effetti economici sugli atenei».

E 1300 ricercatori non bastano a compensare i 10 mila persi

Queste sole due voci, dipartimenti di eccellenza e oneri legati agli aumenti retributivi si portano via 321 milioni sui 346 in più rispetto all’anno scorso. I rimanenti vanno per una serie di altre misure la più corposa delle quali riguarda il piano straordinario per il reclutamento di circa 1.300 ricercatori di tipo b (per il quale sono stati stanziati 12 milioni quest’anno e 76,5 milioni per l’anno prossimo). Una misura - commenta il Cun - che «risponde in maniera solo parziale all’esigenza di rafforzare la classe docente del nostro Paese, mentre il reclutamento, soprattutto di giovani, dovrebbe costituire una prassi consolidata di investimento pubblico»: 1.300 docenti in più sono ben poca cosa rispetto ai diecimila posti persi negli ultimi anni.

Turnover al 100%? Una promessa mancata

«In assenza di un finanziamento ad hoc stabile e progressivo nel tempo per gli incrementi del costo del personale - conclude il Cun -, l’auspicato ritorno del turnover al 100 % dopo che il personale si è notevolmente ridotto nell’ultimo decennio, rischia di essere un obiettivo non sostenibile da un punto di vista economico-finanziario». Con buon pace delle promesse fatte da Bussetti appena qualche settimana fa presentando le linee programmatiche del suo dicastero in Parlamento: «Siamo in fondo alla classifica dei Paesi Ocse per numero di professori universitari e ricercatori in rapporto agli studenti. Abbiamo quindi bisogno di accrescere in modo significativo il numero dei ricercatori e dei professori, non solo consentendo la sostituzione di ogni professore pensionando ma anche creando le condizioni affinché i giovani talenti possano rientrare in Italia».