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C’è una questione Scuola che va oltre i confini nazionali. Una questione di dignità, di senso e di uguaglianza

L’articolo di Francesco Sinopoli, Segretario generale della FLC CGIL, pubblicato sull’Huffington Post.

09/04/2018
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L'Huffington Post

Fatti importanti stanno accadendo nelle scuole di alcuni paesi occidentali, alcuni hanno tratti comuni, altri hanno specificità locali. E tra questi fatti vi è certamente una diffusa, generale, comune mobilitazione di insegnanti, docenti, studenti e famiglie.

Scioperi sono in atto in almeno quattro stati degli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia, in Slovenia, perfino in Germania. Il tratto comune degli scioperi degli insegnanti, molto partecipati e di massa, è la rivendicazione forte della loro funzione sociale, che va riconosciuta anche sul piano salariale, oltre che su quello dei diritti nel lavoro.

È l'effetto della società della conoscenza, sempre più diffusa, e decisiva, che tuttavia cede a una contraddizione drammatica: da una parte, riconosce il valore sociale del sapere, perfino nella logica della competitività industriale e economica, ma dall'altro e nello stesso tempo, per effetto delle politiche di austerità, riduce la dignità sociale degli insegnanti, relegandoli in una sorta di "funzionari", o burocrati, della diffusione della conoscenza.

Questa contraddizione sta esplodendo ovunque, e si manifesta come rivendicazione di maggiori risorse per la scuola pubblica e salari più decenti per gli insegnanti. In Francia, ad esempio, gli insegnanti e gli studenti si sono uniti allo sciopero di tutto il settore pubblico, che conta ben 5,4 milioni di dipendenti, per protestare contro il progetto del presidente Macron di smantellarlo, dopo aver chiesto, in campagna elettorale, il loro sostegno in cambio di maggiori risorse e salari più elevati.

Nel Regno Unito gli scioperi degli insegnanti hanno avuto un tratto comune con quelli francesi e americani, rivendicando funzione e dignità sociale e salari adeguati, ma anche un tratto specifico: sta accadendo che gli insegnanti abbandonino la professione, e il reclutamento di nuove leve stenta a ripartire perché insegnare non è più considerata una professione con la quale si può vivere in serenità.

Negli Stati Uniti l'ondata di scioperi ha colpito innanzitutto gli stati più impoveriti dalla crisi, a partire dal Kentucky e dall'Oklahoma, e sta diffondendosi a macchia d'olio. Decine di migliaia di insegnanti sono in sciopero per rivendicare tre cose: maggiori risorse per le scuole pubbliche, sacrificate negli anni della crisi, maggiori aumenti salariali rispetto al modesto 5% proposto dai governatori degli stati, e soprattutto la fine dell'ideologia della school choice, ovvero di quel meccanismo infernale che ha messo in competizione le scuole, dei centri e delle periferie, creando forti disparità e disuguaglianze non solo tra gli studenti e le famiglie, ma anche tra gli insegnanti. Su quest'ultimo punto, la fine della ideologia della "school choice", la protesta è perfino più ampia e feroce, perché stabilisce una giuntura con famiglie e studenti. A Houston, Texas, ad esempio, la costruzione della ideologia concreta e competitiva della school choice ha prodotto poche scuole d'élite, frequentate dai rampolli delle famiglie molto abbienti, e tante scuole ghetto, diversificate perfino etnicamente.

Ci sono ormai le scuole frequentate per il 94% da studenti ispanici, così come ci sono scuole frequentate per il 95% da cinesi o da studenti di colore. La school choice in America ha dunque generato il mostro delle scuole etniche. E pone notevoli problemi agli insegnanti, già scarsamente pagati, e privi di tutele sindacali e di dignità sociale. Ma la ideologia della school choice si è rivelata un danno tragico anche nel Regno Unito.

Nel paese dove il modello della school choice è stato pensato e realizzato nella forma più pura si registra un collasso della mobilità sociale. Nel paese dove le classi sociali non sono negate da nessuno, anche un vecchio conservatore come John Major si ribella contro una scuola che favorisce il cristallizzarsi di una divisione censuale tra gli studenti che accedono ai gradi più elevati dell'istruzione e da ultimo ai posti di direzione politica e economica del paese.

Da noi, invece, si fa strada in maniera strisciante questa fallimentare impostazione. Sono in molti a voler perseguire il modello della school choice mentre si rafforza il rischio che il sistema nazionale di valutazione venga progressivamente orientato in questa direzione.

È emblematica la sorte del rapporto di autovalutazione venuto agli onori della cronaca anche di recente. Le scuole avrebbero dovuto fare un uso del Rapporto di autovalutazione (RAV) di tipo diagnostico, per individuare obiettivi e priorità d'azione: utilizzarlo come punto di partenza per definire un piano di miglioramento. Quindi farne un uso solo interno.

Invece, com'è noto, è diventato uno strumento di "rendicontazione" come si chiama in gergo. Infatti, attraverso il Portale scuola in chiaro è possibile, con una ricerca per nome, accedere a molte informazioni su una scuola specifica, oltre a leggere il Rav e gli indicatori a esso connessi.

Tale scelta che va nella direzione dell'utilizzo all'esterno di queste informazioni non ha molti eguali. Infatti solo in Romania –oltre che in Italia– è stata recentemente predisposta una piattaforma elettronica centralizzata dove caricare i Rapporti di valutazione interna.

La Romania appunto, un noto faro per le politiche dell'istruzione. Se poi, davvero, come qualcuno dice, eduscopio verrà ceduto "gratuitamente" (bontà loro) al Miur la partita sarà chiusa, aprendo le porte alle classifiche vere e proprie.

Questo modello mercatista tipicamente neoliberale non è un portato naturale della valutazione di sistema e del resto non è certamente quello che ispirava il Sistema nazionale di valutazione (regolato dal DPR n. 80) che, in linea con le più avanzate ricerche del settore, prevede il recupero del significato orientativo e formativo della valutazione, in direzione di individuare linee di miglioramento della scuola, escludendo in tal modo ipotesi punitive e/o classificatorie.

Il punto non è tanto se le prove Invalsi devono continuare a essere effettuate a tappeto o si può pensare, di effettuarle a campione, ma soprattutto la finalità del sistema posto che per analizzare i divari e le disuguaglianze sempre più forti i dati sono fondamentali.

La scuola migliore cerca di rispondere alle domande silenziose, a quelle dei genitori che non hanno strumenti culturali e la forza economica per orientare le scelte dei propri figli e non scelgono le scuole in base al Rav trasformato in strumento di comparazione ma trovano la scuola nel loro quartiere, quando la trovano, lavora sulla cooperazione e non incoraggia il familismo amorale e proprietario che sta alla base dell'idea mercatista.

Il problema non è quello di consentire una scelta informata ma come si fa ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle disuguaglianze e non un moltiplicatore.

L'autovalutazione delle istituzioni scolastiche deve essere uno strumento di riflessione interna, volto alla comprensione dei propri punti di forza e di debolezza, utile per stabilire priorità e azioni per migliorare. Invece aggrava la torsione del sistema di valutazione verso una deriva classificatoria. La legge 107 rafforza questa tendenza. Se da una parte abbiamo l'eliminazione delle prove standardizzate durante l'esame a giugno (cosa positiva e richiesta più volte anche da noi) e il loro spostamento all'interno dell'anno scolastico, tali prove diventano requisito di ammissione all'esame e si trasformano come la parte più corposa della certificazione delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione.

Bisogna evitare che dietro una spinta politica neanche tanto occulta il criterio di valutazione e di autovalutazione perda progressivamente la funzione di acquisire informazioni precise per decidere politiche di miglioramento della scuola in relazione agli obiettivi costituzionali per trasformarsi in elemento dirimente della competizione tra istituti, e dunque parte essenziale della school choice.

Il peso attribuito ai risultati dei test nella certificazione delle competenze contribuisce a svilire il ruolo e la funzione sociale degli insegnanti. Se sulla valutazione restituita alle famiglie si arriverà a far pesare più i test degli esiti dell'apprendimento certificati dalla scuola, svuoteremo il senso stesso di questa istituzione in uno dei suoi compiti fondamentali. Non c'è bisogno anche di questo per aggravare una situazione già difficile.

E se si analizza bene il fenomeno, la mortificazione della dignità, della funzione e del prestigio sociale della scuola, dei docenti, dello stesso personale è alla base anche della escalation di avvenimenti drammatici e violenti che hanno come protagonisti alcuni genitori, i quali scaricano su di essi difficoltà e frustrazioni nell'educazione dei figli. Pessimi modelli per i loro figli. Quando accadono fatti e eventi drammatici come questi significa che la solidarietà e la legittimità della comunità educante viene messa in discussione.

Si tratta di uno scoglio enorme, sul quale la scuola e l'intera opinione pubblica devono essere chiamate a riflettere, soprattutto se vogliamo ricostruire la scuola su basi costituzionalmente orientate. È venuta meno da tempo, la distinzione che pure fonda i sistemi dell'istruzione: da un lato la costruzione dei limiti educativi da parte delle famiglie che consegnavano alle scuole bambini e adolescenti abituati al no e al rispetto delle regole; dall'altro lato la funzione centrale della scuola identificata correttamente e prioritariamente come agenzia di acquisizione dei saperi e della conoscenza. E solo contestualmente e in dipendenza da quella funzione di istruzione svolge anche la funzione educativa.

La nuova famiglia ha tendenzialmente abdicato alla sua funzione educativa affidando alla scuola non solo la funzione di trasmissione e rielaborazione dei saperi ma anche quella sua propria in un atteggiamento collusivo con le scorrettezze dei figli.

Prevale ormai la figura della "famiglia adolescente" che rompe il patto educativo implicito che dovrebbe essere naturale fra adulti e si schiera con il minore ritenuto soggetto che non può e non deve subire un giudizio negativo, uno scacco, una frustrazione. Ma vi sono anche famiglie che ritengono i propri metodi educativi indiscutibili e non mediabili con le scuole.

I modelli sociali poi non aiutano: prevale l'idea trasmessa a livello di massa che la regola può essere violata senza conseguenza, che il limite può essere superato e che ciò è normale. Ai giovani è negata l'esperienza salutare per la crescita della fatica del dissenso e dello scacco. Purtroppo la scuola deve prendere atto che essa è rimasto l'unico vero presidio educativo oltre che culturale del paese. Ma occorre soprattutto investire nella scuola, perché se si percepisce che non è centrale, la considerazione sociale viene meno e le conseguenze possono essere anche di questo tipo.

Gli strumenti di difesa per il docente sono quelli previsti dalla legge. Il docente deve ricorrere al giudice ma in una situazione straordinaria come quella di oggi riteniamo che la scuola dell'autonomia debba costituirsi parte civile, come deve fare a mio avviso anche il sindacato, esattamente come avviene in situazioni di analoga emergenza dove esistono norme generali da far valere ma serve un segnale prima di tutto culturale, non si tratta di fatti isolati. E soprattutto c'è un problema di prestigio delle istituzioni scolastiche che va recuperato.

Se la scuola vale, allora occorre dimostrarlo investendo in risorse, in aggiornamento ai nuovi linguaggi, in edilizia perché le sue aule siano belle e accoglienti. E occorre ridare alla professione docente, ma anche al Personale Ata e dirigente una dignità sociale che hanno perso. Abbiamo iniziato a farlo con il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro la cui preintesa è stata siglata a febbraio, dopo nove anni di vacanza, in cui abbiamo voluto inserire innanzitutto norme tese a superare le drammatiche pretese della Legge 107 di trasformare le nostre scuole in aziende, in costante competizione quasi-mercatistica tra loro, e i docenti in meri funzionari e non educatori.

Il contratto scade il 31 dicembre 2018 e già tra due mesi siamo chiamati a presentare le nuove piattaforme. Sappiamo bene da cosa ripartire dopo aver riconquistato con questo rinnovo il diritto a contrattare: salari e professionalità, la base della dignità nel lavoro. In una recente assemblea tra gli altri temi trattati, abbiamo quantificato esattamente le risorse necessarie per fare entrare la nostra scuola in Europa sul piano salariale.

Servirebbero 6,8 miliardi di euro per i docenti e 1,2 miliardi per gli assistenti tecnici e amministrativi e i collaboratori. Non ci illudiamo che possano essere stanziate in un colpo solo ma ci aspettiamo che la prossima legge di stabilità preveda le risorse per il rinnovo 2019-2021 consentendo un avvicinamento importante alla media salariale dell'Europa a 22. Sarà la priorità delle nostre rivendicazioni.

Serve però riaprire una discussione pubblica sulla scuola e sulla sua missione. Le politiche degli ultimi 15 anni hanno consolidato l'ideologia neoliberale nella quale merito e mercato diventano sinonimi in una ricetta condita da tagli: dal maestro unico, al taglio delle ore di laboratorio, dal blocco degli organici Ata, alla Legge 107 che chiude il cerchio.

Oggi, di fronte a una regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani: se il sapere è solo quello dei libri, "chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti". Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla "rendicontazione" dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione.

Serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l'obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di ciascuno, per dirla con Amartya Sen.

Lo studio, la scuola, l'università sono parte del riscatto sociale, sono strumenti indispensabili per la comprensione del mondo, di socializzazione democratica, perché educano al sapere critico. La scuola non deve educare il capitale umano, non è un luogo di addestramento al lavoro così com'è; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle. Ma soprattutto bisogna tornare a ragionare sui contenuti del sapere.

La questione del vocabolario scarso nelle menti delle giovani generazioni è divenuto un problema planetario, e finalmente ci si accorge che solo potenziando lettura e lingua (grammatica, sintassi, vocabolario) si possiede il mondo (con le parole profetiche di don Milani). È vero che le tecnologie della comunicazione hanno trasformato il modo in cui si legge e si scrive, o ci si scambia informazioni.

Proprio per questo serve una scuola e un sistema universitario che siano finalmente in grado di insegnare che si può non essere "schiavi". Già nel 1975 Tullio De Mauro insisteva sulla linguistica democratica quale artefice della libertà di pensiero critico. L'attenzione alla lingua e alla sua comprensione è decisiva anche nell'era della comunicazione digitale integrata. Non basta combattere l'analfabetismo digitale perché, una frequente attenzione di Facebook ce lo rende evidente, esistono anche i digitali analfabeti e sono tanti.

È evidente che il voto del 4 marzo ha bocciato la politica del Pd sulla scuola e sul lavoro ma ha anche rilevato la difficoltà di una sinistra alternativa a essere considerata davvero in grado di raccogliere le istanze di cambiamento. In questa campagna elettorale la scuola è stata solo nominata.

Molti hanno detto di voler cambiare la 107 e siamo contenti. Se tutti ci avessero supportato anche nella raccolta delle firme per i 4 referendum che avevamo proposto, quella legge l'avremmo già ribaltata. Nel nuovo scenario politico non dobbiamo escludere nessuno strumento per riaprire una discussione pubblica sulla scuola, sulle sue priorità, su una idea costituzionale e attuale. Sfidare le nuove maggioranze sul merito, incalzarle sui programmi. Vale sulla scuola come sul Jobs act e le pensioni.