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Cervelli in fuga negli atenei tedeschi il primato degli italiani che ci dispiace

In sei anni i nostri connazionali sono diventati il gruppo più folto "È una perdita di intelligenze"

17/11/2018
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la Repubblica

Tonia Mastrobuoni

Dalla nostra corrispondente

BERLINO

Scorrendo i cognomi dei professori e degli assistenti sui siti degli atenei tedeschi ormai è un fiorire di desinenze in — ali, — iti, — oni o — elli. Tra gli stranieri che insegnano o fanno ricerca in Germania gli italiani sono diventati da sei anni di gran lunga il gruppo più folto e distaccano del 17% persino i cinesi. Nel 2016 erano 3.185 gli accademici con passaporto italiano presenti nell’accademia tedesca contro i 2.615 cinesi, i 2.481 austriaci e i 2.257 indiani.

Un primato che abbiamo conquistato nel 2012 e che continua a crescere. I nostri connazionali sono ormai quasi il 7% dei 46mila collaboratori e docenti che sono impiegati negli atenei della Germania, stando ai dati forniti dall’autorevole Daad e dal Das Zentrum für Hochschul — und Wissenschaftsforschung (Dzhw, Centro di studi accademici e scientifici). A ciò si aggiunge l’impennata di italiani che decidono di studiare nel Paese di Angela Merkel. E non stiamo parlando di borsisti o di studenti Erasmus.

Secondo il Rapporto Migrantes sugli italiani nel mondo gli studenti che hanno conseguito la maturità in Italia e decidono di iscriversi all’università tedesca sono più che raddoppiati in sette anni.

Erano 3.976 nel 2010 mentre nel 2017 Migrantes ne ha contati ben 8.550. Una delle ragioni per la accresciuta attrattività della Germania sta anche, secondo Edith Pichler, attentissima studiosa dell’emigrazione italiana in Germania, "in un cambio di mentalità". Secondo la sociologa dell’Università di Potsdam «è cambiata l’immagine della Germania: nella testa di molti italiani è meno lontana ed estranea di come potesse essere nei decenni scorsi. Merito anche — aggiunge la studiosa italiana che insegna in Germania — di un’Europa integrata che ha avvicinato molti Paesi e molti popoli».

Ma il primato degli accademici italiani in Germania «non è solo qualcosa di cui andare fieri», ammette Pichler. «È anche una perdita di intelligenze importanti, per il futuro del Paese». Dunque, la perdita degli accademici non è solo un’eresia se si pensa all’investimento che lo Stato e le famiglie mettono in campo per l’istruzione degli studenti italiani. Secondo calcoli di Confindustria, nel solo 2015 le famiglie hanno speso 8,4 miliardi per l’educazione dei figli, cui vanno aggiunti 5,6 miliardi che ci mette lo Stato: 14 miliardi in tutto. E come attestano da anni i dati Istat, a noi torna ben poco di quegli investimenti, anzitutto perché l’Italia non è altrettanto attraente per gli accademici stranieri. Ma anche perché moltissimi italiani che emigrano non tornano più in Italia. Peraltro l’istituto di statistica ha certificato che i "cervelli in fuga", cioè i laureati emigrati all’estero sono quadruplicati nel giro di quattro anni, tra il 2012 e il 2016.

Va ricordato che negli anni della Grande crisi l’emigrazione giovanile ha raggiunto numeri da emorragia. Mentre tra il 2008 e il 2014 il tasso di occupazione precipitava dal 24,2 al 15,6% tra i 15-34enni e addirittura dal 64,3 al 51,7% tra i 25-29enni, i giovani emigravano a centinaia di migliaia. Tra l’anno del fallimento di Lehman Brothers e il 2015 ben 260mila italiani sotto i 40 anni hanno fatto le valigie e hanno spostato la residenza in un altro Paese.

Confindustria ha riassunto efficacemente il motivo per cui i "cervelli in fuga" dovrebbero esseri considerati un’emergenza nazionale e schizzare in cima alle priorità dei politici. Un ragionamento che echeggia quello di Edith Pichler: «L’esportazione di capitale intellettuale, oltre a essere una perdita di persone e denaro speso per crescerle e formarle, abbassa il potenziale innovativo del Paese, che nel lungo periodo è il motore della produttività».