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Chi ha paura dei fuoricorso?

Da un po’ di tempo il problema degli studenti fuori-corso è divenuto uno dei parametri fondamentali per giudicare della qualità della didattica dei singoli corsi di laurea e di conseguenza degli atenei

25/05/2018
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ROARS

Francesco Coniglione

Da un po’ di tempo il problema degli studenti fuori-corso è divenuto uno dei parametri fondamentali per giudicare della qualità della didattica dei singoli corsi di laurea e di conseguenza degli atenei. Le strutture che devono subire una visita da parte dei CEV dell’Anvur sanno bene che tra i parametri che saranno da questi valutati vi sono i cosiddetti indicatori iC02 (percentuali laureati entro la durata normale del corso) o iC16 (percentuale di studenti che proseguono al II anno avendo acquisito almeno 40 CFU al I anno) e su di essi sarà giudicata l’efficienza della struttura didattica.

Ciò ha fatto sì che gli atenei si ponessero il problema di come fare a “mettere a posto” questi due fattori, ponendo in essere tutta una serie di misure che cercano ripescare i fuori-corso “storici” e in qualche modo li possano incoraggiare a completare il proprio percorso formativo; oltre ovviamente a istituire misure e controlli vari per impedire che i nuovi studenti accumulino ritardo: dal potenziamento del servizio di tutorato, sino al controllo occhiuto sui programmi dei docenti in modo che ad ogni credito corrisponda un numero massimo di pagine (di solito ci si attesta sulle 100 pagine a credito). Si è arrivati addirittura in qualche ateneo (ma questi fenomeni sono virali e prima o poi si diffondono in modo epidemico) a richiedere ai docenti – al fine di “facilitare” gli studenti – di approntare dei “programmi minimi” per i fuori-corso, di modo che questi li possano superare anche con voti minimi, da 18 a 20. Non è chiaro a cosa si riferisca tale nimimalismo: fare Platone sì e Aristotele no, studiare a pagine alterne, optare per i famosi Bignami, oppure – soluzione più in linea con la vocazione aziendalista dell’attuale università – fare corrispondere solo 50 pagine ad ogni credito? E che dire agli altri studenti “massimalisti”, che magari si beccavano un 20 studiando un programma normale? Ovviamente si dovrebbe assicurare a costoro un voto che sia per lo meno superiore al 20.

Questo psicodramma per l’esistenza dei fuori-corso parte da un assunto che non viene discusso e che porta a una conseguenza che ne deriva naturalmente: l’assunto è che la quantità dei fuori-corso sia un parametro affidabile per giudicare della qualità e/o della efficienza di una struttura didattica universitaria, allo stesso modo di come lo sono i bocciati in una scuola. Un assunto del tutto ingiustificato e immotivato, perché in base ad esso le migliori università verrebbero ad essere quelle telematiche e le scuole più prestigiose i diplomifici paritari. Da questo assunto ne deriva una conseguenza altrettanto ingiustificata: che il fenomeno dei fuoricorso sia l’effetto della cattiva qualità didattica e organizzativa della struttura; e che quindi il problema sia risolvibile intervenendo sulla preparazione didattica dei docenti (e in alcune università sono stati inaugurati corsi di didattica per i docenti che, magari alla fine della loro carriera, devono apprender come si deve insegnare la propria disciplina) oppure rendendo più facili, più soddisfacenti, più piacevoli, meglio fruibili i corsi universitari.

Ancora una volta, come sempre più spesso accade da qualche tempo, si scaricano sui docenti e sull’università problemi che appartengono e derivano da un più generale contesto sociale. Per limitarci al caso in questione, Antonio di Grado (ordinario di letteratura italiana e fine letterato) confessa nel suo Elogio del fuori-corso:

«Sono stato un fuori-corso: mi sono laureato con un anno di ritardo. Perché? Perché facevo politica, Sessantotto e occupazioni compresi, perché condividevo le attività di una comunità di studenti dalla vita molto intensa, perché dirigevo un giornalino, perché approfondivo le materie più amate più del dovuto, e infine (e perché no?) perché tenevo al mio tempo libero, agli svaghi, agli amori, alle amicizie, e a quelle letture eccentriche e disparate, estranee ai programmi universitari, alle quali devo la mia più autentica formazione. Sono stato un fuori-corso e continuo a ritenermi tale a vita, perché pretendo di gestire il mio tempo, i miei interessi, le mie occupazioni senza subire imposizioni e perentorie scadenze, senza prestare ascolto alle malefiche sirene della ‘produttività’».

Ecco, il fuoricorso non è solo la vittima di una cattiva didattica, di una università che non funziona, ma una persona che ha a una vita indipendente, suoi interessi e passioni, una sua umanità fatta di lavoro, impegni, figli che non vuole trascurare, così come non vuole privarsi della possibilità di conseguire un titolo di studio, di avere una propria formazione, con i tempi adatti ai suoi ritmi vitali. Ma il fuoricorso può anche essere la vittima di una società ingiusta, che non mette tutti in condizione di studiare con serenità, di mantenersi agli studi senza il bisogno di lavorare, con problematiche familiari e personali che bisognerebbe affrontare nei luoghi e nei momenti adatti, senza trasferire il peso di questo disagio tutto all’interno delle università.

Certo, possono esserci casi di “mala università” che bisognerebbe rimuovere: docenti che assegnano le tesi e poi sono inavvicinabili o introvabili, quelli che costituiscono dei veri e propri “tappi” perché forse ritengono la propria disciplina l’ombelico del sapere, corsi male organizzati e senza il necessario tutorato e così via. Ma pensare che il fenomeno dei fuoricorso sia aggredibile riportando all’interno dell’università disagi e problematiche che le sono esterni può portare a una sola conseguenza: ai saperi minimi e a un progressivo abbassamento della qualità della formazione, perché le università, di fronte alla possibilità di essere penalizzate anche nei finanziamenti in quanto in eccesso di fuoricorso, finiranno per adottare la strada più semplice: abbassare gli standard qualitativi.

E poi, in fin dei conti, perché tanta paura dei fuoricorso? Si deve intervenire solo nei casi in cui – nonostante la buona volontà di finire in tempo il proprio percorso formativo – lo studente trova degli ostacoli solo interni alla struttura didattica, che non sono legati alla richiesta di alti standard qualitativi, bensì a fenomeni disfunzionali. Chi voglia prendersi i suoi tempi di maturazione o ha altri impegni cui non vuole rinunziare, perché dovrebbe essere inseguito, braccato e costretto a laurearsi in tempo? In fondo gran parte dei fuoricorso neanche grava sulle strutture di un ateneo, perché questi di solito frequentano poco sia le aule che le biblioteche, per cui non costituiscono un aggravio organizzativo; e così di fatto finiscono per essere una fonte (anche se anomala) di finanziamento delle strutture universitarie.

Infine, perché non contemplare anche la possibilità che lo studente fuoricorso semplicemente non sia tagliato per gli studi universitari? Perché sostenere una politica che abbassa la qualità dell’insegnamento ed abbatte tutte le difficoltà, in modo da rendere facile e piacevole l’apprendimento, e non invece pensare che debba essere lo studente a cimentarsi con le difficoltà di una disciplina, che debba essere lui a doversi adattare alle esigenze della cultura e alle sue logiche, piuttosto che essere quest’ultima a diventare una sorta di sapere liofilizzato atto a entrare in ogni testa, anche la meno adatta e dotata?

Ecco, la politica dei fuoricorso così come viene gestita dalla competenti autorità è il classico esempio di un problema mal posto e peggio risolto, che porterà a un ulteriore irreversibile degrado dell’Università e della ricerca scientifica che ancora in essa viene – invero sempre più residualmente – perseguita.