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Così il Covid-19 cambia l’università

L’università italiana ha saputo reagire bene all’emergenza sanitaria. Ora si affacciano nuove sfide. Nella crisi economica bisogna aiutare i giovani a prendere le decisioni migliori, per loro stessi e per la collettività.

23/05/2020
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lavoce.info

MAria De Paola

La reazione degli atenei al coronavirus

L’università italiana ha saputo reagire in tempi rapidi ai grandi cambiamenti imposti dall’emergenza sanitaria. Tutti gli atenei si sono velocemente attrezzati per organizzare la didattica online e adesso stanno facendo lo stesso per permettere lo svolgimento degli esami da casa, mettendo a punto sistemi utili a garantire la correttezza delle procedure e a impedire comportamenti opportunistici da parte degli studenti, questioni queste abbastanza complesse da scoraggiare persino molte università telematiche, che solo adesso sono passate agli esami a distanza. Docenti e ricercatori hanno mostrato anche grande vivacità nelle attività di ricerca e nella terza missione con moltissime iniziative rivolte al sostegno del territorio.

Il coronavirus porrà anche altre sfide alle università, per le ripercussioni che produce sul fronte economico. Per l’Italia, il Fondo monetario internazionale prevede una contrazione del Pil del 9,1 per cento nel 2020, ciò implica una consistente riduzione di reddito per molte famiglie italiane che potrebbe indurre molti dei giovani che a breve conseguiranno la maturità a non proseguire negli studi e molti di coloro che si sono immatricolati negli anni passati ad abbandonare. Il ministro per la Ricerca e l’Università, Gaetano Manfredi, ha dichiarato di temere un calo degli iscritti del 20 per cento. Secondo l’Osservatorio Talents Venture il calo delle immatricolazioni potrebbe essere dell’11 per cento, con circa 35 mila immatricolati in meno rispetto all’anno academico 2019-2020.

Se ciò accadesse ne conseguirebbe un danno enorme sia in termini di peggioramento delle prospettive individuali sia per la società nel suo complesso. Secondo i dati Ocse, nel 2018 in Italia il tasso di occupazione nella fascia di età 25-64 anni per chi ha conseguito un titolo di istruzione terziaria era dell’81 per cento, mentre per chi ha completato solo le scuole primarie e secondarie la percentuale scende al 71 per cento. Se si guarda al rendimento salariale, i dati Ocse rilevano un differenziale del 39 per cento per i laureati nella fascia di età 45-50 anni rispetto a coloro che hanno acquisito un titolo d’istruzione secondario superiore. Il vantaggio salariale è invece del 20 per cento tra i giovani di età compresa tra 25-34 anni.

La crisi che stiamo affrontando ha messo in evidenza ulteriori benefici derivanti dall’istruzione, i lavoratori che ne hanno risentito meno sono quelli a elevato capitale umano che si sono potuti facilmente convertire allo smart working. Non si trascuri poi il fatto che, come dimostrato da molti studi, laurearsi ha un effetto positivo anche sulla salute, sull’aspettativa di vita, sulla soddisfazione per il proprio lavoro e, più in generale, per la propria vita. Infine, ma non certo meno importante, c’è il ruolo che l’istruzione svolge nei processi di crescita: le risorse finanziarie fanno poco, se non si dispone anche di capitale umano.

Le difficoltà di chi entra ora nel mercato del lavoro

D’altra parte, questo è il momento peggiore per entrare nel mercato del lavoro. Non possono evitarlo coloro che completano gli studi quest’anno, ma per gli altri continuare il percorso di formazione può essere una valida alternativa. Affacciarsi al mondo del lavoro in un momento di grave recessione come quello attuale, con le scarse prospettive occupazionali che ne derivano, difficilmente porterà agli esiti che ciascuno legittimamente desidererebbe: trovare un posto di lavoro pagato decentemente e che offra qualche opportunità di avanzamento. Di scarso aiuto possono essere le misure messe a disposizione dal governo, che tendono soprattutto a limitare l’impatto della crisi su chi un lavoro lo ha già. Entrare adesso nel mercato del lavoro, oltre che essere poco efficace nell’immediato, rischia di produrre effetti negativi anche nel futuro. Ad esempio, un recente studio mostra che laurearsi durante una recessione porta non solo a una perdita di guadagni nella fase inziale della carriera, ma anche in seguito, con effetti che perdurano anche 10 anni dopo la laurea. Inoltre, sembrano esserci conseguenze sull’intera carriera lavorativa poiché chi si laurea in un momento di crisi tende ad accontentarsi, accettando lavori poco adatti alle proprie competenze e aspettative. Questa scelta porterà in seguito a cambiare lavoro più frequentemente rispetto a chi si è laureato in tempi migliori.

La teoria economica ci insegna che scarse opportunità occupazionali e salariali riducono il costo opportunità in termini di guadagni a cui si rinuncia rimandando l’ingresso nel mondo del lavoro e quindi la scelta di proseguire gli studi dovrebbe risultare conveniente per un maggior numero di studenti. Ciò ovviamente in un modello in cui sono assenti vincoli di liquidità e gli individui sono nelle condizioni di fare le scelte che massimizzano il loro benessere. Tuttavia, in Italia, l’accesso al credito è piuttosto complicato e le famiglie hanno sempre avuto una scarsa propensione all’indebitamento. Di conseguenza, c’è un rischio effettivo che la crisi abbia effetti nefasti sul futuro dei giovani che provengono da famiglie economicamente più fragili. I 300 milioni stanziati recentemente dal governo per il diritto allo studio vanno nella direzione di cercare di evitare questa eventualità. Ma potrebbero non bastare ed è necessario che le regioni facciano la propria parte mettendo a disposizione risorse aggiuntive qualora fossero necessarie. Non solo, è necessario anche fornire agli studenti informazioni, supportarli nelle scelte, incoraggiarli e accompagnarli in modo che siano in grado di non perdere nessuna opportunità.

Importanti cambiamenti per le università potrebbero derivare anche dal fatto che i timori relativi al contagio potrebbero limitare la propensione a spostarsi per studiare fuori regione. Gli studenti delle regioni meridionali, che negli anni passati andavano a studiare al Centro-Nord, in un momento di forte incertezza come quello attuale, potrebbero optare per università locali. Per capire l’importanza del fenomeno si consideri ad esempio, che nell’anno academico 2018-2019, la percentuale di immatricolati fuori regione era del 39, 36 e 31 per cento rispettivamente per Calabria, Puglia e Sicilia. Se ciò accadesse, gli atenei della Lombardia e dell’Emilia Romagna che, come si può vedere dalla tabella 1 e dalla mappa sottostante, sono tra quelli che più attraggono gli studenti residenti nel Sud Italia, subirebbero una perdita significativa di immatricolati.

Tabella 1 – Numero di studenti immatricolati, per regione di residenza e sede dell’Ateneo.

Mappa 1 – Studenti universitari fuori sede. Percentuale calcolata sul numero totale di studenti registrati come residenti in una determinata regione.

C’è anche il rischio che il passaggio alla didattica on-line da parte delle università tradizionali faccia diventare meno marcata, nella percezione degli studenti, la linea di separazione con le università telematiche, rendendo la competizione ancora più intensa.

Non mancano dunque le sfide ma, come si diceva all’inizio dell’articolo, l’università italiana sta dando una bella prova di sé, e c’è dunque motivo di sperare che saprà trarne stimolo per migliorarsi.