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Diamo i numeri?

Alessandro D'Avenia

10/06/2019
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Corriere della sera

D al latino tardo scrutinium “il frugare, perquisizione”, deriva dal classico scrutari “scrutare”. 1. Il controllo e il computo dei voti espressi in un’elezione. 2. Valutazione del profitto degli alunni di una classe da parte della commissione degli insegnanti, alla fine di un trimestre, quadrimestre o un intero anno scolastico. 3. Esame accurato, minuzioso». Questo è ciò che si legge in un noto dizionario alla voce «scrutinio». È un termine che non ho mai amato, perché mi riduce a: 1. un controllore di voti (non politici, tranne il famigerato «6» che a volte «forze oscure» eleggono...) ottenuti dalle medie matematiche; 2. un quantificatore di «profitto», termine economico che ricorda il capitalista affamato di guadagni, riducendo un ragazzo al principio utilitaristico di quanto ha «prodotto»; 3. un investigatore che deve, l’etimologia non mente, perquisire e frugare in cerca delle prove per inchiodare il presunto colpevole. Immaginiamo per un attimo che uno studente possa partecipare allo «scrutinio»: che cosa scoprirebbe di sé a parte ciò che già sa dei suoi voti? Che cosa pensa di lui il gruppo di adulti a cui è affidata la sua crescita?

Quando mi riunisco con i miei colleghi per le valutazioni finali non mi sento né un controllore, né un quantificatore, né tantomeno un investigatore: sono un uomo che ha il compito di guidare la crescita di una persona in formazione, cioè una storia che avanza, più o meno pienamente, verso la maturità della natura umana nella originale modalità incarnata da quel ragazzo.

A che serve che un gruppo di adulti si trovi a «dare i numeri», se quelle cifre non sono accompagnate da un giudizio su obiettivi di crescita chiari e condivisi? Può una sfilza di voti raccontare la maturazione di uno studente tra i 14 e i 19 anni? Può l’umano nell’uomo essere ridotto al voto di «comportamento»? È necessario integrare «il profitto» nel quadro più ampio della crescita, come sanno bene i colleghi di italiano: quando restituiamo i temi corretti, voto a parte, lo studente vuole ricevere un giudizio personalizzato, vuole sapere che cosa farsene di quel numero, che cosa rappresenta per lui, per la sua storia. Vuole essere giudicato, non semplicemente valutato.

Per rinnovare gli scrutini e renderli uno strumento educativo efficace occorre allora riportarli al livello di «giudizi» (non precompilati), provandoli prima su di sé: «medico cura te stesso». Propongo quindi, cari colleghi (poi spiegherò perché serve a tutti e non solo a noi), un esercizio, affinato nel tempo, che mi ha fatto crescere professionalmente e umanamente. A fine anno, così come decido la valutazione di un ragazzo sulla base dei voti, del percorso e degli obiettivi della materia, classe per classe mi auto-valuto (da 1 a 10) nei tre ambiti della nostra professione: 1) conoscenza e passione per ciò che ho insegnato (competenza nella materia, aggiornamento e approfondimento); 2) conoscenza e passione per le persone a cui l’ho insegnato (oltre alla relazione con il singolo alunno, quella con il gruppo, con i genitori, con i colleghi dello stesso consiglio di classe); 3) conoscenza e passione per come ho insegnato quei contenuti proprio a quelle persone (competenza di metodo, che cambia ogni anno e con ogni classe, efficacia del tipo di interrogazioni e verifiche, tempistica nella riconsegna dei compiti e trasparenza delle valutazioni).

Dopo esservi «dati i numeri» per ciascuno di questi ambiti, sottoponetevi al «giudizio» degli alunni, classe per classe: creare un questionario anonimo da compilare online è molto semplice (solo voi vedrete i risultati). I ragazzi oltre a «dare i numeri» dovranno giustificarli, esprimendo un giudizio sui vostri «punti deboli e forti» per ognuno dei tre ambiti e offrendo «suggerimenti e consigli». Questo non mina la propria autorità, ma ne verifica con i diretti interessati il fondamento: educa infatti non chi semplicemente ricopre un ruolo, ma chi rimane aperto alle sollecitazioni del tempo, perché, dopo anni, le abitudini consolidate possono diventare inefficaci, se non controproducenti. Confrontate l’auto-valutazione con quella dei ragazzi e scoprirete che sanno essere più obiettivi e costruttivi di quanto crediamo. Per esempio, un anno, una seconda superiore mi ha «dato i numeri» inferiori nel terzo ambito, quello relativo al metodo: nelle motivazioni mi hanno scritto che a volte non mi rendevo conto delle velocità di apprendimento dei singoli alunni e non potevo chiedere a tutti nello stesso modo; mi hanno poi suggerito di motivare più diffusamente il voto dei temi e di essere meno dispersivo nelle spiegazioni. Ho l’abitudine di commentare questi giudizi in classe, all’inizio dell’anno successivo, prospettando loro i miei correttivi, spiegando il perché delle mie scelte e che, in alcuni casi, avrei continuato a fare lo stesso, in vista di obiettivi che a loro in quel momento sfuggivano, ma che, proprio grazie alla loro annotazione, potevo adesso motivare in modo approfondito. Un giudizio ben formulato rende: i nostri fini più chiari e quindi raggiungibili, e il lavoro più efficace e profondo. Così il primo giorno di scuola dell’anno successivo riprende esattamente dall’ultimo dell’anno precedente e gli studenti capiscono che, anche noi, come e prima di loro, siamo una storia e siamo impegnati a migliorare. L’autorità cresce, non diminuisce.

Non si tratta infatti di illudere i ragazzi con una falsa democrazia o simmetria educativa, ma di sperimentare su noi stessi «il peso» di un voto e il suo senso. Se anche noi sentiamo il bisogno di un giudizio che non ci riduca a un numero, ma rispetti la nostra professione, condizione e impegno, figuriamoci un adolescente che, non solo tende a trasformare il giudizio in una sentenza di vita o di morte sul proprio essere più che su quello che sa o non sa (fare), ma che spesso, di fronte al voto secco, non sa poi come migliorarsi. Se in questi anni sono cresciuto come uomo e come professore lo devo soprattutto ai miei ragazzi, gli unici testimoni del mio operato in classe. Inoltre, se è vero che portarli alla maturità significa renderli capaci di autonomia di giudizio, essere valutati da loro diventa un ottimo esercizio per capire quanto ancora siano «sottomessi» o capaci di giudicare senza lasciarsi prendere dalla passione, dall’adulazione, dai rancori... Promuovere noi stessi questo tipo di giudizio mostra loro la nostra maturità: amiamo la verità e siamo liberi sia dalla paura del giudizio altrui sia da una falsa idea di infallibilità. Permettere agli alunni di giudicarci è una pratica diffusa e messa a regime, senza alcun trauma, in quasi tutti i sistemi scolastici. Non so perché, in Italia, abbiamo così tanto timore della valutazione, se poi noi la riteniamo indispensabile per dare compimento e senso del lavoro di un intero anno. La valutazione è parte del processo educativo, purché tenga conto dell’umano integrale, mentre allo stato attuale è solo una quantificazione standardizzata che minimizza l’unicità dell’alunno e ne ignora la storia.

Potremmo affrontare gli scrutini in modo diverso, condividendo con gli altri colleghi: un punto di forza, uno di debolezza e un suggerimento per ciascun alunno. Al momento della consegna — vera e propria — delle pagelle (non basta un pdf via mail) almeno due insegnanti incontrano l’alunno e gli spiegano come e perché è andata così, in quali aspetti è forte, è cresciuto, è ancora debole, su cosa e come migliorarsi. Quando, a partire dal consiglio dei miei studenti di seconda, ho deciso di usare anche i segni positivi nella correzione dei temi (per indicare un passaggio ben scritto, un’argomentazione efficace, un esempio calzante...), loro hanno cominciato a migliorare molto più rapidamente nei punti deboli: ho imparato che la sola sanzione dell’errore non basta a uscirne, bisogna, di pari passo, indicare ciò che è ben fatto come meta per ciò che non lo è ancora. Solo così la pagella diventa un porto: punto di arrivo del viaggio educativo di quell’anno e di partenza del successivo, e non mera ratifica di medie più o meno arrotondate. Abbiamo a che fare con uomini e donne in formazione non con prodotti al controllo-qualità: cerchiamo quindi di non dare solo i numeri, ma di aiutare ciascuno a raccontare la sua storia, perché ognuno è il narratore di una storia che ha bisogno di essere ascoltata per diventare reale.

Il letto da rifare oggi riguarda tutti, non solo noi insegnanti: giudicare è necessario per educare, ma può farlo solo chi cambia prospettiva e si lascia giudicare. Poco tempo fa una maestra mi ha inviato i risultati del lavoro di una quinta elementare: i bambini dovevano inventare una scuola per genitori. Tra le altre materie hanno voluto: ascolto («dei bisogni, sentimenti, errori dei figli per riparare insieme»), racconto («questa materia è stata scelta per evitare l’uso frenetico del telefonino»). I bambini suggerivano anche un laboratorio di «belle parole» («per evitare imprecazioni e parolacce»). Come ci valuteremmo e come saremmo giudicati in quanto genitori, fratelli, coniugi, sorelle, nonni, zii, capi, colleghi, amici... dai diretti interessati? Basta scoprirlo: buoni scrutini, anzi, buoni «giudizi» a tutti!