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Dismettere la ricerca è un gioco sfiancante

Intervista a Daniele Archibugi a proposito della penuria di fondi in cui versa il Consiglio Nazionale delle Ricerche. «Dal 2010 a oggi lo Stato ha sottratto circa 100 milioni di euro di finanziamenti pubblici, il 20% del totale. Servono per far quadrare il bilancio, oggi chiediamo di restituirli»

04/11/2018
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il manifesto

Andrea Capocci

«Salvare il Consiglio Nazionale delle Ricerche»: sembra il titolo di un film di guerra, invece si parla di scienza. Il principale ente di ricerca italiano, oggi, versa in una situazione «difficile come probabilmente non lo è mai stata da quando il Cnr è stato fondato da Vito Volterra nel 1923». I toni allarmati vengono dai direttori degli oltre cento istituti che formano il Cnr, che alla fine dell’anno devono far quadrare i conti delle numerose sezioni disciplinari e territoriali in cui è distribuita l’attività di ricerca. E che ultimamente non ce la fanno più. Così hanno scritto un appello che ha raccolto in pochi giorni oltre tremila adesioni su ottomila dipendenti. Puntano il dito sul «calo costante, sistematico e miope, verificatosi negli ultimi anni, del Fondo che lo Stato mette a disposizione del Cnr».

Molti nomi noti della ricerca italiana hanno collaborato a stilare l’appello, rappresentano l’ampio spettro di scienze naturali e umanistiche in cui è attivo il Cnr. Tra questi c’è Daniele Archibugi, direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali con un lungo curriculum di collaborazioni e consulenze con le più prestigiose istituzioni in materia di politiche dell’innovazione, dall’Università di Londra all’Ocse e alla Commissione Europea.

A chi entra nel suo ufficio, Archibugi mostra una tabella dalla Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, curata insieme a Fabrizio Tuzi.
«In termini reali, dal 2010 a oggi lo Stato ha sottratto circa cento milioni di euro di finanziamenti pubblici, il 20% del totale. Sono i cento milioni di euro che servono per far quadrare il bilancio e che oggi chiediamo al governo di restituire».

Altrimenti cosa succede?
Quello che succede adesso è che dobbiamo usare i fondi esterni, quelli dei progetti di ricerca che riusciamo a ottenere in Europa e altrove, per pagare le spese di ordinaria amministrazione, come le bollette e le pulizie. Con il rischio di non avere più i soldi per portare a termine le ricerche finanziate e doverle dismettere. Questa situazione scoraggia i ricercatori più bravi, che sono quelli più penalizzati. Se un bravo ricercatore porta fondi all’ente, non solo al Cnr non si mette in tasca una lira per sé, ma rischia di vederseli decurtati per far quadrare il bilancio dell’ente. Chi invece non vince progetti, non rischia niente. Chi glielo fa fare a quelli bravi?

Nel vostro appello, qualcuno ha letto una sottile accusa ai precari (all’argomento è dedicato un pezzo in questa pagina, ndr), come se la loro assunzione mettesse in crisi l’ente. È una lotta tra poveri?
Non c’è nessuna lotta, i precari che saranno assunti per me sono solo nuovi colleghi. È vero che il governo ha stanziato fondi appositi per la loro assunzione, che dunque non pesa sul bilancio dell’ente. Ma il Cnr oltre a pagargli lo stipendio deve metterli in condizione di fare ricerca, garantendo infrastrutture, laboratori, strumentazione. Anche i precari hanno interesse che il governo stanzi ulteriori fondi per accompagnare la loro assunzione.

All’estero come funziona?
Di solito, negli altri paesi chi vince un progetto di ricerca versa all’ente un cosiddetto overhead, una percentuale che serve a pagare le spese di amministrazione. Al Cnr ufficialmente l’overhead non c’è, e noi non saremmo contrari in linea di principio a versare una percentuale all’ente. Ma non si può introdurre una regola del genere con i progetti già avviati, con fatture e stipendi da pagare: diventa un prelievo forzoso che fa saltare i conti e blocca la ricerca.

Per riformare il Cnr bisogna copiare dall’estero?
La questione ora non si pone; bisogna innanzitutto garantire la sopravvivenza del Cnr, prima di riformarlo. In linea di principio bisognerebbe regolarizzare il flusso di nuovi ricercatori, con un numero di concorsi annuo continuo e sostenibile. All’estero è diverso anche il contesto. Ovunque c’è il problema della difficoltà di finanziare attività di ricerca solo con i progetti. Ma nel nordeuropa non ci si affida solo ai fondi europei, perché i finanziamenti pubblici provengono anche dai governi e dalle imprese. L’investimento pubblico però è decisivo. Se in Germania le imprese, anche dall’estero, investono in innovazione è perché la ricerca pubblica mette a disposizione una massa critica di ricercatori e laboratori con cui collaborare.