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Don Milani Eterno ritorno a Barbiana

Quella dell’autore di " Lettera a una professoressa" resta l’eredità più potente da trasmettere in aula

04/07/2020
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la Repubblica

di Eraldo Affinati

«Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola. (…) Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola». Parole, sante, di don Lorenzo Milani, comprese in Esperienze pastorali e sottolineate col pennarello rosso da più di una generazione, dette e ridette cento volte sino alla loro estrema, per alcuni insopportabile, consunzione semantica. C’è da chiedersi perché, ancora adesso, a parte chi continua ad attribuirgli, in un fraintendimento colossale, la responsabilità del cosiddetto sei politico di marca post-sessantottina, siano ancora in tanti a interpellare il suo fantasma, come se potesse indicarci la strada da percorrere per rimettere in sesto la tanto bistrattata scuola italiana. Non si rendono conto, questi estimatori in buona o cattiva fede, che tutto potremmo ricavare dal priore di Barbiana, all’infuori di un prontuario universalmente applicabile? «Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica ». Nossignori, non ci siamo.

Allora riformuliamo la domanda: come bisogna essere a scuola? Per rispondere conviene rileggere, ancora una volta, Lettera a una professoressa.

Proponiamo dieci spunti di riflessione, da presentare ognuno in una doppia valenza interpretativa. Primo: non dovremmo mai e poi mai intimidire gli studenti; eppure se un docente fosse severo con autenticità, i suoi allievi potrebbero perfino apprezzarlo. Secondo: guai a ingannarli con domande trabocchetto: giusto, tenendo presente che « un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille » . Terzo: dobbiamo avanzare tutti insieme, senza lasciare indietro nessuno, ma non per ridurre i nostri obiettivi, anzi per moltiplicarli. Quarto: i ragazzi è necessario guardarli negli occhi e chiamarli per nome; però gli scolari vanno addestrati con le buone e con le cattive: non li possiamo lasciare allo stato brado. Quinto: dimentichiamoci la ricerca della perfezione che non conduce a niente, ma non accontentiamoci di poco. Sesto: occupiamoci di chi va male, per evitare di assomigliare all’ospedale che vuole curare i sani e non i malati e, così facendo, aiuteremo anche chi va bene. Settimo: mai impugnare il coltello dalla parte del manico, nascondendo la nostra sapienza o, peggio ancora, distillandola quasi fosse un liquido raro; nel medesimo tempo ricordiamoci che « a scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro » . Ottavo: non si studia per la pagella, il registro e il diploma; lo si fa per realizzare un’impresa conoscitiva, ma questo dovrebbe valere nella scuola dell’obbligo, dove non dovremmo bocciare nessuno. All’università sarà diverso. Se il dottore sbaglia la diagnosi, il malato muore; se l’ingegnere non fa bene i conti, il ponte crolla. « Ad esempio per le patenti siate severi. Non vogliamo essere falciati per le strade». Nono: i programmi vanno rinnovati. A cosa serve far giocare a pallacanestro i ragazzi abituati ad arrampicarsi sugli alberi? Ognuno dovrebbe ricevere ciò di cui avrà bisogno: il che non significa abolire il basket. Decimo: scopriamo le carte della valutazione, non facciamo come la professoressa che, vedendo l’errore del suo alunno, non diceva nulla, altrimenti lui all’interrogazione si comporterà allo stesso modo: « Sfugge le cose che ha capito meno, insiste su quelle che sa bene » . Ecco il fondamento: ciò che dà senso a tutto. Altro che skills, vale a dire le competenze da stilare nel bilancio di fine anno!

Don Milani ci ha lasciato una propulsione vitale, non il semplice programmino da svolgere. C’è una passione profetica nell’insegnamento di questo sacerdote, inconciliabile con ogni dimensione istituzionale, anche se lui sapeva benissimo che la struttura classista della scuola italiana, ancorata alla legge Casati, emanata da re Vittorio Emanuele II il 13 novembre 1859 e rimasta in vigore fino alla riforma Gentile del 1923 (l’anno della sua nascita), era così radicata nella nostra società che chiunque avesse voluto smantellarla si sarebbe ferito da solo. Oggi Gianni, lo studente svantaggiato, si può chiamare Mohamed. Invece Pierino, che continua a partire due metri più avanti rispetto agli altri, è rimasto uguale a prima: la recente pandemia, scoprendo il divario digitale, lo ha impietosamente riconfermato. E Barbiana? Potrebbe rinascere soltanto nell’appartamento di « due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario».

Il priore incarnò un cristianesimo radicale, a testa in giù, che pochi dentro la stessa Chiesa compresero, se abbiamo dovuto aspettare cinquant’anni prima di vedere Papa Francesco raccogliersi a pregare sullo strapiombo del Mugello. In ogni caso esiste un’indicazione essenziale che resta valida in assoluto, un faro d’orientamento per l’istruzione italiana: la scuola non dovrebbe essere uno spazio specialistico, « con l’ossessione della campanella » , bensì l’intensificazione della vita.