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Eppure l'Università ha trovato una strada

Un’università in cui la semplice trasmissione del sapere venga garantita (in modo critico e accurato) ma in cui in primo piano stia l’invenzione del nuovo, ossia quello che, spesso senza pensarci, chiamiamo “ricerca”.

06/10/2017
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la Repubblica

Maurizio Ferraris

SCRIVO dall’università di Harvard, a Cambridge, in Massachusetts. Lo avvertite come una spacconata? Ovviamente sì. Se vi dicessi «sono a Torino, Piemonte, Italia», dove insegno, vi chiedereste: e allora? In questa differenza si nasconde, credo, tutto il disagio dell’università italiana, ed europea in generale. Un certo numero di università americane e inglesi hanno imposto il loro brand, indubbiamente con merito e tenacia, ma contemporaneamente si è assistito, dal dopoguerra in avanti, a una perdita di prestigio di tutte le università europee.

UNIVERSITÀ che peraltro fornivano e forniscono eccellente insegnamento a prezzi molto più bassi, e talora gratis.

Il fatto di essere generalmente università statali, implicate in un processo di educazione nazionale, ha poi imposto alle università europee di adeguarsi a una maggiore richiesta di educazione (il famoso “Processo di Bologna” per l’uniformazione dell’insegnamento superiore in Europa, che è del 1999). Si è proceduto dunque a una standardizzazione al ribasso e animata da idee populiste, che ha coinciso con assunzioni di massa di docenti. Poi si è proceduto al fenomeno inverso, insistere (giustissimamente) sulla meritocrazia, ma stabilendone i criteri attraverso parametri insufficienti e mal studiati (come ad esempio il fatto che in filosofia, la mia disciplina, contino di più gli articoli in riviste di fascia A che le monografie).

Non sono tuttavia tra coloro che ritengono che queste trasformazioni abbiano affossato l’università. Certo l’ondata populista delle riforme Berlinguer e Gelmini ha prodotto grandi danni, ma al tempo stesso ha costretto a ripensare alle discipline e all’organizzazione universitaria. E la meritocrazia mostruosamente imperfetta che è stata difesa dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) è pur sempre un processo senza il quale l’idea stessa di università è impensabile. Anzi, dopo 43 anni passati in università, come studente, poi come precario, infine come professore, è la prima volta che ho l’impressione di essere in un’università come avrei sempre voluto che fosse, e comunque molto migliore di quella che ho conosciuto da studente e da giovane professore. Spiego rapidamente perché.

Meritocrazia. Tradizionalmente (così suonava una battuta tragicamente vera) il professore nominava un successore più stupido di lui e così via, sino a che veniva fuori uno talmente stupido che per sbaglio nominava un intelligente. Ora non è più così. Ripeto, i criteri di valutazione della ricerca sono altamente contestabili (una volta al mio libro più noto e discusso internazionalmente — parametri giustamente riconosciuti dall’Anvur — un anonimo valutatore ha dato uno zero secco), ma si è creata una griglia che definisce quali sono le caratteristiche necessarie per essere un buon professore (ricerca, organizzazione della ricerca, insegnamento), che fa sì che coloro che vengono reclutati oggi siano mediamente superiori a coloro che sono stati reclutati prima. Il che significa: una università migliore.

Trasparenza. I concorsi sono tutti visibili sul web. Questo non è un merito dell’università, ma la rende migliore. Che ora scoppino così tanti scandali deriva dal fatto che chi può e chi vuole è in grado di far sentire le proprie ragioni. Ovviamente ci sarà sempre chi cerca di aggirare le regole, ma le regole ci sono, e chiare, per chi le vuole seguire, il che tra l’altro rende possibile denunciare gli abusi, cosa che prima era praticamente impossibile. Se vogliamo, i concorsi universitari sono passati dall’epoca dell’Inquisizione e dei processi segreti all’epoca dei processi pubblici (che ovviamente sono fallibili o possono essere truccati, ma qui, invece che là, c’è modo di intervenire).

Internazionalità. Ora i professori, e ancor più gli studenti, hanno imparato che l’italiano non basta, e che la circolazione internazionale delle idee richiede una lingua internazionale. Questo fa dell’università una vera università, una istituzione cosmopolitica. A Torino non abbiamo la babele di lingue che si sentono parlare nelle vie di Cambridge, ma, per esempio, l’attivazione di un corso di filosofia in inglese sta incominciando ad ampliare l’utenza, e questo crea un circolo virtuoso (gli studenti, diventati professori, inviteranno i loro professori, ecc.: ecco perché gli americani vanno dappertutto mentre gli italiani a lungo hanno dovuto accontentarsi di andare in Paradiso).

Decostruzione. Gli scossoni che il mondo sociale, la tecnologia, e spesso l’insipienza dei riformatori, ha dato all’università ha costretto a ripensarla da cima a fondo. Per esempio, si è riconosciuto che un elemento fondamentale della ricerca è comunicarla nei media (quando ero studente lessi una stroncatura di Sartre definito «giornalista»). Si è ridotto il peso degli insegnamenti storici (peraltro importantissimi, ma che non bastano a fare una università). Si è ripensata la funzione e il campo delle discipline umanistiche, che non sono soltanto la trasmissione di un canone, ma anche l’invenzione del nuovo.

Invenzione. Proprio questo è il punto a mio parere decisivo. Il web ha prodotto un fenomeno banale ma determinante. Le conoscenze standard sono a disposizione di tutti, quindi la funzione di mera trasmissione del sapere non è più interessante per l’università. È lo stesso fenomeno che si è prodotto con l’Illu-minismo: la diffusione della cultura ha reso inutili le università in cui ci si limitava a leggere ad alta voce dei manuali, ed è nata la nuova università, puntata sulla produzione del nuovo e non solo sulla trasmissione del vecchio. Proprio questa è la circostanza favorevole per lo sviluppo — che non è un semplice auspicio, abbiamo già molti segni in questo senso, e comunque il mondo va avanti — di una Università 4.0. Un’università in cui la semplice trasmissione del sapere venga garantita (in modo critico e accurato) ma in cui in primo piano stia l’invenzione del nuovo, ossia quello che, spesso senza pensarci, chiamiamo “ricerca”.