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Giovani, brillanti, ben pagati. Così tremila ricercatori l’anno vanno (e restano) all'estero

Le mete: Gran Bretagna e Usa, ma anche Francia e Germania. Ma c’è pure chi finisce in Nepal

24/09/2016
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Corriere della sera

Antonella De Gregorio

Ad abbandonare la nave sono tremila giovani all’anno, dei circa 11mila che conseguono il titolo di dottori. Vanno via soprattutto se le loro discipline di riferimento sono Scienze fisiche (31,5%) Matematica o Informatica (22,4%). Meno mobili i dottori in Scienze giuridiche (7,5%), in Agraria e Veterinaria (8,1%), dice l’Istat. Che ha fatto un identikit del dottore di ricerca che cerca fortuna all’estero, dove ci sono più opportunità e si fanno lavori più qualificati e meglio retribuiti. Proviene per lo più da famiglie del Centro-Nord, con elevato livello di istruzione ed è diventato dottore giovane, prima dei 32 anni. Se si calcola che in Italia l’età media di ingresso (meglio, di stabilizzazione) nella professione è di 37 anni, e che gli scatti retributivi sono rimasti congelati per anni, è facile intuire quanto sia difficile avere gratificazioni in patria.

La cooptazione

«Le nostre università assumono con il contagocce e i posti sono riservati a gente che è in lista da anni, tendenzialmente allievi dei professori», dice Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro a Modena. «Una tradizione che nella sua accezione più nobile premia i migliori delle varie Scuole. Ma che ha portato a una forte degenerazione del sistema. In Danimarca, Svezia, Giappone, Stati Uniti, non si premia la fedeltà dell’allievo, ma c’è un’effettiva competizione meritocratica».

Ricerca privata

Con l’associazione Adapt, fondata da Marco Biagi, Tiraboschi ha lavorato a una proposta di legge per creare un mercato della ricerca privato, per dare riconoscimento ufficiale ai ricercatori nelle aziende: «Ci allineerebbe alla tendenza europea e consentirebbe di far fronte alle esigenze di crescita e sviluppo del Paese». E invece le piccole e medie imprese italiane a gestione familiare, specializzate in settori a medio-basso contenuto tecnologico, sono poco propense a investire in ricerca e sviluppo e in capitale umano.

In fuga

Mentre a livello accademico sono burocrazia e baronie, più che il merito, a decidere chi fa carriera. Ecco perché i nostri ricercatori se ne vanno. A guadagnare il doppio, a volte quattro volte più dei colleghi che rimangono, a utilizzare meglio le proprie competenze. Il mercato del lavoro nazionale «non riesce a valorizzare appieno il percorso formativo e il potenziale professionale dei dottori», conferma Almalaurea. Così vanno ad arricchire chi cresce e investe sul talento: in Gran Bretagna, prevalentemente (16,3%). Negli Usa (15,7%), in Francia (14,2%), Germania (11,4%), Svizzera (8,9%). Alcuni, più avventurosi, trovano le opportunità che l’università italiana non offre in Nepal, Cina, Finlandia. E non si tratta di «circolazione» di cervelli, perché il numero di giovani che emigrano non è compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche, che fanno rientro in patria. Tanto meno da cittadini di altri Paesi, dello stesso livello, che scelgono l’Italia come destinazione. «Concorsi e insegnamenti in lingua italiana, pochi posti e già assegnati... Perché uno straniero dovrebbe partecipare?» commenta Tiraboschi.

Ricerca di ottima qualità

L’altra faccia della medaglia è la certezza che l’attività di ricerca svolta in Italia sia di ottima qualità. Lo confermano i dati sui fondi Erc. Ma tra i titolari italiani del finanziamento, una quota crescente di ricercatori li spende all’estero. «Il Paese - conclude il docente - sta rinunciando a qualcosa che sa fare bene, e che è più che mai essenziale per la crescita di un’economia avanzata».