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I genitori adottati dalla scuola

Mariapia Veladiano

24/04/2018
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la Repubblica

Il rapporto sul Benessere equo e sostenibile è un bel progetto Istat- Cnel che legge la dimensione sociale del nostro star bene. Fra gli indicatori considera anche la fiducia. L’ultimo Rapporto 2016 dice che solo il 20% degli italiani dai 14 anni in su ritiene che gli altri siano degni di fiducia. Vuol dire che 8 su 10 delle persone che incontriamo ci guardano con sospetto. Non un bel vivere. La scuola, ci ha detto Ilvo Diamanti ieri, sta meglio di altre istituzioni perché ancora il 53% degli italiani la apprezza, ma il tarlo della sfiducia collettiva l’ha già raggiunta.

E allora come si fa, visto che la scuola vive di ogni tipo di fiducia: nei ragazzi che sono pieni di valore, quali che siano i loro risultati; negli insegnanti che non li stanno ingannando ma aiutando a riconoscere se stessi e le proprie abilità, nel futuro per cui studiare è cosa buona?

Si può fare. In generale la sfiducia dilaga quando non si conosce la realtà che si ha davanti. Della scuola il mondo esterno non sa nulla. Solo la rappresentazione occasionale e gridata che ne danno i media quando qualcosa di orribile capita nell’universo dei 7 milioni di studenti distribuiti nelle 8.700 scuole della penisola. Tutta la vita d’aula, l’intensità, la bellezza e la fatica di governare relazioni con bambini e adolescenti belli confusi ed esplosivi, tutto questo non lo si conosce. A casa i figli sono uno o due alla volta, a scuola sono trenta e più per classe. Un immaginario condiviso di scuola noi in Italia non ce l’abbiamo. Le fragilissime strutture partecipative pensate dai Decreti delegati si sono sciolte di fronte alla crisi di partecipazione dei nostri giorni. Poi le scuole sono aulifici e tanto poco prevedono la presenza dei genitori che li riceviamo nei corridoi. Infine i genitori vanno a scuola soprattutto quando hanno paura per i risultati dei figli, che misurano il loro valore di padri e madri. La scuola oggi si trova a dover allargare il proprio ruolo sociale e spesso “adotta” i genitori insieme ai figli, per poter uscire insieme dalla trappola di una conflittualità ormai accettata che alza i toni del conflitto corrodendo la capacità riparativa che ha la parola quando ci si incontra e ci si parla. Tutto questo richiede un dialogo personale e paziente che spesso è difficilissimo perché le scuole sono spaventosamente sovradimensionate. La norma parla di 900 studenti per scuola al massimo, spesso sono tre volte tanto e i presidi hanno quasi sempre anche una scuola in reggenza con un eccesso di responsabilità da togliere il respiro. Al dialogo servono il tempo e la lentezza dell’ascolto. Bisogna avere scuole più piccole e classi meno numerose, punto. Per non essere inchiodati agli obblighi della “ scuola difensiva”, che si sfibra in adempimenti borbonici mirati a evitare i contenziosi.

E poi all’immaginario di scuola servirebbe tanto una moderna narrativa e filmografia che parlasse di scuola in modo tale da far emozionare, da permettere a chi legge di identificarsi con i docenti ed essere con loro sgomenti e affaticati e entusiasti di fronte alla complessità dei comportamenti dei loro figli. Perché anche i genitori non sanno niente dei loro figli e quando li convochiamo per raccontarglieli si arrabbiano o si disperano. Non hanno tempo, dicono, ma spesso li vedono con gli occhi del loro desiderio, occhi narcisistici: mio figlio è mio, mio figlio sono io. Libri che parlano di scuola ne escono tre al giorno, ma quando si tratta di romanzi i professori sono sempre diversamente bravi rispetto al loro compito: sono detective, psicologi o assistenti sociali. E infatti, spesso, questo i genitori chiedono alla scuola e non va bene.