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I laureati italiani costretti a fare lavori inadeguati

L’Ocse: pochi alla meta e con scarse competenze E alla fine vengono relegati a mansioni di routine

06/10/2017
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la Repubblica

Rosaria Amato

Pochi laureati e con scarse capacità, ma fin troppo qualificati rispetto alle attuali esigenze del mercato del lavoro. In Italia funziona così, l’11,7% dei lavoratori ha competenze in eccesso rispetto alle mansioni che svolge, e il 18% è sovraqualificato. Eppure, emerge dal Rapporto Ocse “Strategia per le competenze”, abbiamo il 10% di laureati in meno rispetto alla media: solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni ha completato il percorso universitario. L’Italia è inoltre l’unico Paese del G7 in cui la quota di lavoratori laureati impiegati in mansioni di routine è più alta rispetto a quella di laureati impiegati in attività più complicate, come i processi decisionali. Una debolezza che si ripercuote sulla crescita: «La modesta performance delle competenze ha contribuito al ristagno economico dell’Italia », sottolinea l’Ocse. Siamo incagliati in un circolo vizioso, «una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese», aggravata per di più da squilibri molto consistenti tra Nord e Sud, uomini e donne, giovani e anziani. «Il divario della performance “Pisa” (il sistema Ocse per misurare le competenze in lettura, matematica e scienze, ndr) tra gli studenti della Provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico», spiega il rapporto. Quanto alle donne, con un tasso di occupazione che non arriva al 50%, penultimo nella media Ue, sono spesso percepite come le principali “assistenti familiari”: svolgono la maggior parte del lavoro domestico non retribuito, hanno accesso limitato ad asili nido accessibili e a posti di lavoro flessibili, sono incoraggiate a prendere tutti i congedi familiari possibili, liberando i padri dal corrispondente onere.

La stragrande maggioranza delle imprese (l’85%) è di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare e i manager «non hanno le competenze necessarie per adottare e gestire tecnologie nuove e complesse». E neanche per valorizzare i lavoratori: le remunerazioni aumentano per anzianità, non sulla base dei risultati raggiunti, e quindi non ci sono incentivi all’aggiornamento professionale e all’apprendimento di nuove competenze. Nel complesso l’Italia investe in ricerca e sviluppo solo l’1,2% del Pil, la metà della media Ocse.

Eppure le eccellenze non mancano: i nostri laureati hanno scarsi livelli di competenze di lettura e capacità matematica rispetto alla media degli altri Paesi, ma «i migliori lavoratori italiani hanno, in diverse aree di competenza, un livello pari a quello dei più qualificati lavoratori degli altri paesi del G7». Brillano, in particolare, in «rapidità d’apprendimento e problem solving »: fanno, cioè, di necessità virtù. Non basta, certo. Per far evolvere il Paese, suggerisce l’Ocse, serve una vera strategia delle competenze. L’Italia ci sta provando, con «un ambizioso pacchetto di riforme» che «stanno iniziando a dare i loro frutti», rileva il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria, «con la creazione di oltre 850.000 nuovi posti di lavoro». Si tratta del Jobs Act, e dell’avvio delle politiche attive del lavoro, con l’istituzione dell’Anpal; della Buona Scuola, con l’Alternanza Scuola Lavoro; del Piano Nazionale Scuola Digitale e del Piano Nazionale per l’Industria 4.0. Tutte riforme per le quali l’Ocse spende molte parole di apprezzamento, sottolineandone però le difficoltà di sviluppo. In particolare, stentano a decollare le tanto auspicate politiche attive del lavoro, essenziali non soltanto per ridurre la disoccupazione, ma anche per superare quel maledetto “equilibrio di basse competenze” che blocca da anni il Paese. Intanto perché i servizi pubblici per l’impiego non funzionano bene e sono frammentati sul territorio nazionale. E poi perché la progettazione delle politiche attive «si basa raramente su informazioni circa le esigenze locali in termini di competenze», e alla loro attuazione non seguono un monitoraggio e una valutazione dell’impatto. Si continua a navigare a vista, senza stimare davvero quali siano le esigenze delle aziende e del mercato, destinate spesso a rimanere insoddisfatte: il mismatch esiste anche al contrario, con un 21% di lavoratori che ha qualifiche inferiori a quelle richieste per le mansioni che svolge.