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I privilegi degli atenei, le difficoltà nelle scuole

I veri dimenticati

04/03/2021
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Il Messaggero

Paolo BAlduzzi

Paolo Balduzzi
Nell'efficientissima Lombardia è cominciata in questi giorni la campagna vaccinale nei confronti del personale universitario. Un accordo, quello tra la Regione e i rettori, che fa perno sulla logistica e sui numeri contenuti degli atenei per facilitare le operazioni di somministrazione. Dal punto di vista organizzativo, sembrerebbe una buona idea. 
Ma c'è veramente qualcosa che stona in tutto questo. E lo scrivo da persona che nell'università ci lavora da sempre. Nell'efficientissima Lombardia, chi ha più di 80 anni una delle fasce più a rischio - sta in moltissimi casi ancora aspettando una convocazione per il vaccino. Eppure, gli ospedali sono sicuramente più numerosi e distribuiti in maniera più capillare delle università. 
Non solo. La vergognosa vicenda della rissa sui Navigli e i non meno vergognosi assembramenti, diciamo pacifici, nelle vie del centro di ogni città lombarda negli ultimi fine settimana - hanno testimoniato ancora una volta tanto l'incapacità degli adulti di evitare i luoghi affollati quanto, ancor più gravemente, l'incapacità o la pigrizia delle istituzioni di far rispettare dei sacrosanti divieti. 
Il risultato di questa sbornia di zona gialla è stato naturalmente il ritorno in zona arancione e, per alcune aree, l'attivazione del cosiddetto arancione rinforzato. 
Una soluzione cromatica che non determina alcuna differenza rilevante se non quella della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado (fatti salvi gli asili nido).
Ora, come abbiamo più volte scritto, c'è una enorme differenza tra chiudere una scuola primaria e un'aula dell'università. Non è bello fare lezione on line, nemmeno all'università. È, forse, più noioso per gli studenti; è, sicuramente, più difficile per i docenti. Ma stiamo parlando di persone adulte, capaci di organizzarsi da sole che, anzi, a volte beneficiano del fatto di poter seguire una lezione dalla propria abitazione senza dover svenare sé o le proprie famiglie con elevate spese per vitto e alloggio in una grande città del nord. 
Le iscrizioni non sembrano essere diminuite a causa del Covid, le università stanno scoprendo benefici logistici enormi dalla possibilità di somministrare parzialmente in classe e on line le proprie lezioni, oppure di registrarle e renderle disponibili almeno per qualche settimana ai propri studenti malati: sarà davvero un mondo eccitante quello che troveremo in ateneo alla riapertura.
Un bambino a casa invece getta letteralmente nel panico le famiglie, costrette talvolta a dover rinunciare al lavoro per occuparsi dei figli. O a fare i salti mortali per garantire a tutti i figli la possibilità di seguire contemporaneamente le lezioni on line. E, a volte, anche a dover saltare delle lezioni per mancanza delle infrastrutture necessarie (computer, connessioni adeguate). 
Come è possibile che nell'efficientissima Regione Lombardia non vengano considerate queste problematiche? E come è possibile non considerare i rischi che corre il personale di queste scuole? Le maestre e i maestri delle scuole d'infanzia indossano caschi, maschere, occhiali, grembiuli sin da settembre perché i loro bambini, ovviamente, non possono indossare la mascherina. Perché non cominciare a dare un po' di sollievo a loro? Non è impossibile, visto che altre Regioni lo hanno fatto o lo stano facendo. Le maestre e i maestri della scuola primaria fanno salti mortali per assicurare una continuità di lezioni alle proprie classi, nonostante le quarantene sempre più frequenti che interrompono il flusso dell'insegnamento. E così via. 
Finalmente, sembra che il prossimo 8 marzo anche nell'efficientissima Regione Lombardia partirà la campagna vaccinale per il restante personale scolastico. Ma restano grandi sospetti su quanto accaduto finora. Il primo riguarda la Regione stessa. La sensazione è che le istituzioni non abbiano in alcun modo compreso la distribuzione dei danni e dei pericoli nelle scuole e che quindi abbiano totalmente sbagliato a stabilire le proprie priorità. Oppure, dietro la facciata di voler riaprire gli atenei si nascondono altri obiettivi, probabilmente economici. L'economia è importante, lo ammetto. Ma non è tutto. E, in ogni caso, l'economia delle rendite lo è un po' meno di quella del lavoro. 
Il secondo sospetto riguarda il ruolo dei rettori delle università. Non discuto la volontà di tutelare il proprio personale, docente e non docente, fatto spesso anche in questi casi di persone fragili. E ringrazio i rettori per questa ammirevole intenzione. Resta il fatto che stiamo assistendo a una corsa immotivata per ricominciare le lezioni in aula il prima possibile. Una specie di gara tra i rettori a chi potrà per primo dichiarare che la propria università è perfettamente funzionante. Il tutto, però, in un contesto di continua mutazione delle condizioni sanitarie e di sicurezza. 
Tra chiudere un'aula universitaria e una prima elementare, non c'è nemmeno da porsi la domanda. E aggiungo, a rischio di essere deriso da qualche collega, che se tenere chiusa l'università significa poter aprire qualche ristorante in più, per me è la cosa giusta da fare. Arriverà anche per noi il tempo di vaccinarci e di tornare in classe. Ma nessuno di noi in questi 12 mesi di pandemia ha perso un euro di reddito, a differenza di chi ha chiuso la propria attività. 
I rettori lombardi, nonostante le sicure buone intenzioni, non stanno dando un grande esempio al Paese. La classe dirigente deve capire chi può fare un passo indietro e chi invece ha bisogno di tenere aperto per vivere. Se l'università non capisce che possiamo aspettare con calma il nostro turno, non siamo classe dirigente: siamo solo lobby d'interesse. 
Non posso naturalmente parlare a nome dei colleghi più anziani o in situazioni di fragilità. Ma, per quanto mi riguarda, non risponderò all'email della mia università che mi chiede se voglio essere vaccinato. E non perché non voglia esserlo; tutt'altro: non vedo l'ora. Ma perché non posso eticamente accettare un ribaltamento delle priorità così marchiano messo in atto dalle istituzioni della regione in cui vivo. E vorrei davvero tanto che quella dose di vaccino a me destinata un 45enne in perfetta salute e che non ha mai smesso di lavorare dalla propria abitazione - finisca a una maestra di scuola materna o uno dei tanti anziani che la sta aspettando da ormai troppe settimane. Chiedo troppo?