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Il sistema istruzione-ricerca alla base del rilancio del Paese

di Elena CAttaneo

02/09/2019
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Il Messaggero

Il 20 agosto scorso il presidente del Consiglio, dichiarando in Parlamento conclusa l’azione del Governo, sottolineava per l’Italia il bisogno di politica con la “P” maiuscola, declinata come «la capacità di progettare il futuro, esprimendo ad un tempo visione prospettica ed efficacia realizzativa». L’istruzione e la ricerca venivano messe al primo punto di un’agenda possibile per scongiurare l’inesorabile declino del Paese, da cui i giovani fuggono mentre da fuori non ne arrivano: «Le nostre scuole devono diventare laboratori di apprendimento (…) È necessario potenziare l’intero reparto della ricerca, realizzando un sistema di coordinamento più efficace tra università ed enti di ricerca anche attraverso un’agenzia nazionale». Solo retorica? È facile riconoscere l’urgenza di un investimento, quando non si può più essere messi alla prova sulla sua “efficacia realizzativa”. 

Giovedì scorso però lo stesso Giuseppe Conte, incaricato di formare il nuovo governo, si è impegnato a lavorare ad una squadra che offra «ai nostri figli l’opportunità di vivere in un Paese migliore, all’avanguardia nella ricerca e nelle più sofisticate tecnologie», in cui «l’istruzione sia di qualità e aperta a tutti». 

Istruzione e ricerca, ben declinate, potrebbero trovare in Parlamento e nel Paese un consenso trasversale pari a quello ottenuto sulla reintroduzione dell’educazione civica nelle scuole. Anche nella maggioranza che si va profilando ci sono segnali di forte consonanza. Nicola Zingaretti, nel dichiarare che il Pd aveva accettato l’ipotesi di un reincarico al presidente Conte, individuava come prima urgenza per una nuova stagione civile e sociale quella di occuparsi degli «studenti, i diplomati e laureati che sono dovuti andare all’estero» e affermava la necessità di una «rivoluzione del diritto allo studio». 

Il tema dei “cervelli in fuga” e di quelli che non arrivano dall’estero è l’inevitabile conseguenza dell’avvitamento della catena “istruzione - università – ricerca - lavoro” bloccata per mancanza di risorse e visione di lungo periodo. Non stupisce quindi, il dilagare della povertà educativa, specie (purtroppo) nelle regioni del sud, la scarsa preparazione dei nostri quindicenni rispetto ai coetanei europei (dati test PISA), la bassa qualità della forza lavoro disponibile, i riflessi sulla fragilità di tenuta democratica di una popolazione culturalmente debole.

Anche nell’attuale difficilissimo contesto di finanza pubblica, alcune azioni si potrebbero adottare subito, altre si possono mettere in cantiere. Serve un po’ di coraggio per ripensare alcune politiche d’investimento dalla discussa efficacia, come il “bonus cultura” o l’abnormità - nel contesto - di finanziamenti dati per legge e senza competizione allo Human Technopole (e enti analoghi), per costruire un sistema istruzione-ricerca che premi le libere idee e non crei nuovi protettorati. Bisogna ripartire dall’ABC delle policy in materia: una programmazione certa e costante negli anni di bandi pubblici dotati di adeguate risorse, cui ogni studioso possa liberamente accedere in modo competitivo, e con comitati di valutazione slegati da ogni appartenenza.

Lo strumento, sempre perfezionabile, utilizzato dal ministero dell’Istruzione per alimentare tutta la ricerca di base con bandi competitivi si chiama PRIN. La ministra Valeria Fedeli, nel 2017, è stata l’ultima a dedicare a quel fondo 400 milioni di euro e quel bando atteso da anni ha attirato ben 4500 progetti. Dare stabilità e continuità alla ricerca pubblica di base con un finanziamento decennale sarebbe un primo straordinario passo per restituire fiducia a chi si ostina a studiare e ricercare per dotare il Paese di nuove conquiste scientifiche, tecnologiche e sociali. 

Anche interventi apparentemente marginali sarebbero preziosi. Sul diritto allo studio universitario, bastano poche risorse per eliminare l’anomala figura dello studente “idoneo ma non beneficiario” di borsa di studio. Tradisce la Costituzione uno Stato che non assicura “ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” ma si limita a censirli. Lo stesso può dirsi per il rafforzamento delle iniziative di contrasto alla dispersione scolastica (oggi al 3,8% nelle scuole secondarie di II grado), fonte di infinite fragilità sociali. 

Ci sono, è ovvio, anche azioni più “grandi”. Il viceministro uscente Lorenzo Fioramonti pochi giorni fa individuava la necessità per l’Italia di investire un miliardo nella ricerca e due nell’istruzione, da finanziarsi con tasse di scopo, ricordando come da ogni euro dato alla ricerca ne “tornino” 4 al Paese.
Quali che siano le risorse disponibili e il modo di reperirle - spending review o tasse di scopo o entrambe - il tangibile cambio di passo di qualunque nuovo governo sarebbe garantire che non un euro pubblico sia mai più erogato per legge in modo clientelare, o per sostenere progetti e idee di ricerca non selezionate in via competitiva tra tutti gli studiosi del Paese. Sembra poco, sembra banale. Non lo è. 

* Docente alla Statale di Milano e Senatrice a vita