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Intorno allo sciopero: di scatti bloccati e “precarizzazione”

Umberto Izzo

05/08/2017
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ROARS

Un post di Dario Braga apparso la settimana scorsa sul wall di Facebook di ROARS ha innescato una riflessione che mette assieme la questione degli scatti e dello sciopero di settembre con il tema della precarizzazione nell’Università, per contrastare il tentativo di alimentare contrapposizioni prive di senso fra “precari” e “strutturati”. A margine, e allargando lo sguardo ben oltre il senso di una contrapposizione che giova solo a chi ha interesse a promuovere  la logica del “divide et impera”, va considerato che questo è il momento nel quale si definiscono le agende e i programmi di chi si confronterà alle prossime elezioni. E a livello endogovernativo, in autunno ANVUR voterà il suo nuovo Presidente. Nella diversità delle posizioni e delle visioni del mondo coltivate da ciascuno, lo sciopero deve allora costituire un’occasione simbolica per condividere un fronte comune che rivendichi la necessità di invertire radicalmente la rotta sulle politiche seguite in questi anni in tema di università, su tutti i temi che ROARS ogni giorno non si stanca di portare all’attenzione dei suoi lettori.     

In un thread apparso sul wall di ROARS la settimana scorsa, Dario Braga, commentando un post nel quale si evocava il tema della precarizzazione subito dopo aver rilanciato un suo articolo apparso sul Sole 24 ore dal titolo redazionale “Che delusione l’Università ridotta a corsa al “posto“, ha affermato:

“nei paesi avanzati – quelli ai quali noi pensiamo di appartenere – la parola “precario” non è traducibile – si parla di temporary job – il “precariato” è un prodotto tutto nostrano della mancanza di un mercato del lavoro intellettuale. Il perché dovrebbe essere materia di riflessione.

Tematizzare il problema della precarizzazione nell’Università impiegando l’espressione Temporary job mette però decisamente fuori strada.

Negli USA e in tutti i sistemi di higher education che ne mimano il modello, si parla di tenured o non tenured positions.

Sul punto, ovvero sul fondamento economico/istituzionale dell’opportunità di garantire a vita la stabilità del posto di lavoro di un professore universitario, esiste una letteratura sterminata.

Ne parlava colui che aveva reso grande Harvard nel 1907:

“in una società democratica la libertà del docente va difesa dalla tirannia della maggioranza, o di quel pensiero dominante che in un dato momento storico può manifestarsi con riferimento ad uno qualsiasi dei nodi centrali della conoscenza e del mutevole sistema di credenze accolte in una società sul piano religioso, politico ed economico.

A questo rischio, secondo Elliot, si deve ovviare prevedendo la tenure of office, ovvero concependo ruoli di insegnamento non sottoposti a termine o rinnovo, l’accesso ai quali è subordinato ad un processo di valutazione rigoroso, preceduto da severi periodi di prova, ma sempre retto in modo esclusivo dalla comunità accademica.

Un privilegio di casta? No.  Un meccanismo che all’occorrenza permette al docente, non diversamente dal giudice della Corte suprema degli Stati Uniti che giura sulla Costituzione di fronte al Presidente che lo ha nominato, di votare contro gli interessi dell’istituzione artefice della sua designazione”.

Sul tema furono gettate le basi che permisero al sistema universitario statunitense di trionfare a livello mondiale nella seconda metà del Novecento.

E il sistema regge anche oggi, esibendo una intrinseca giustificazione economica. Nelle parole di Raghavendra Rau, professore di sistemi finanziari a Cambridge che scrive sul Financial Times (proprio come Braga, che scrive sul Sole 24 Ore):

“The binary nature of tenure in the US is therefore a rational economic solution to the twin problems, adverse selection and moral hazard, universities face. It is also why despite frequent calls to abolish tenure, the tenure system has survived – without it, universities would cease to be centres of research. It is also likely to be a reason why by far the greatest amount of academic research originates in the US.”

Per non dire delle ulteriori giustificazioni interne alla vita universitaria che rendono necessario prevedere che a un certo momento della carriera il professore universitario consegua la stabilizzazione.

Su queste basi possiamo allora accettare di mettere in relazione il tema della precarizzazione con l’articolo già segnalato, nel quale Braga alza le spalle sul tema dello sciopero programmato a settembre sulla questione del mancato riconoscimento degli scatti, dipingendo la protesta in atto da parte dei professori – che, esasperati dalla noncuranza con la quale sono stati accolti tutti i tentativi di avere ascolto dal Governo sulla questione degli scatti, bloccati per 5 anni, intendono scioperare a settembre – come una mera questione di posti.

Abbassare il livello della retribuzione di un professore universitario sotto un livello che rende necessario fare altro per mantenere un tenore di vita dignitoso nel sistema italiano (qui una comparazione europea affidabile, che fotografava la situazione dieci anni fa, ben prima del blocco degli scatti; qui invece un report molto più recentenel quale fra le considerazioni riassuntive si può leggere il dato per il quale “the pattern suggests that in academia one can expect to receive a corresponding average salary increase with the number of years of work experience) implica presupporre (senza peraltro mai dirlo in modo esplicito) che il professore italiano – se può – debba utilizzare il suo status e le sue competenze per fare altro (e non qui si parla di quel “ben altro” caro ai “benaltristi” che per questo motivo non condividono le ragioni dello sciopero.

Questo in Italia, ma non negli USA (ove chi preferisce non abbandonare la private practice resta adjunct professore non entra nei meccanismi decisionali della comunità universitaria), è possibile optando per la posizione di professore a tempo determinato. Di fatto, in quei settori accademici nei quali si ha un mercato consulenziale/professionale, questo è quel che accade da noi. Il numero di tempo-deterministi è probabilmente prevalente fra quanti oggi criticano/liquidano lo sciopero, ritenendolo “una mera questione di soldi”, obiettando che “ben altri” sono i problemi sul tappeto, e così via.

Se però non ci si avvede:

  • che la stabilità del posto di lavoro nella carriera accademica e un livello dignitoso di retribuzione sono due facce della stessa medaglia (e assai miopi sono le visioni di chi cerca di aizzare gli strutturati e i precari dell’Università in una lotta all’ultimo osso gettato nella mangiatoia dal Governo);
  • che conseguire un posto da ricercatore a tempo indeterminato ai primi anni Ottanta come primo livello della propria carriera accademica (come a suo tempo poté Braga) cambia non poco le cose rispetto a quanti oggi vivono di rinnovi di assegni e se va bene di contratti da RTDA ben oltre la soglia simbolica dei 40 anni;
  • che è necessario avere la possibilità di godere di una retribuzione che non obblighi (salvo rispettabilissime scelte personali) a fare un doppio lavoro per recuperare la dignità salariale perduta, quando in età non più verde si consegue l’agognata immissione in ruolo;

allora possiamo concordare con Braga o con chi titola i suoi articoli che è tutto e solo una questione di posti.