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L'autonomia come sopruso

Michele Ainis

08/05/2019
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la Repubblica

L’autonomia differenziata fu il colpo di coda della legislatura scorsa. Che ci colpì sul muso quando il governo Gentiloni siglò tre «accordi preliminari » con Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, accogliendo la richiesta di maggiori competenze. La firma risale al 28 febbraio 2018, quattro giorni dopo abbiamo celebrato le elezioni. Dunque una promessa elettorale, un’arma di propaganda del Pd per raccattare qualche voto. Invece ha rastrellato veti. Ma nel frattempo la promessa è diventata una minaccia. E dopo un tira e molla fra Lega e 5 Stelle, oggi la pallina da ping pong rimbalza in Consiglio dei ministri.

Ma che minaccia il minacciante? Un bene invisibile come l’aria, però altrettanto indispensabile: l’unità degli italiani. Sacrificata all’egoismo dei territori ricchi, all’astio che giocoforza monta fra le regioni povere. Sennonché figura un’altra vittima di questa prova muscolare: la Costituzione. Tradita nell’atto stesso in cui viene applicata, giacché la procedura dell’articolo 116 viene di fatto elusa, frodata, raggirata. In primo luogo per una ragione sostanziale, che investe il senso stesso di quella procedura. Ovvero la possibilità d’estendere il catalogo delle attribuzioni regionali, trasformando in potestà esclusiva la loro potestà legislativa concorrente dentro un elenco di 23 materie. Sottinteso: in via eccezionale, e soltanto quando la nuova competenza rifletta una precisa vocazione di quel particolare territorio.

In questo caso, viceversa, i commensali hanno ordinato all’oste tutte le pietanze del menù. Il Veneto reclama 23 materie, 20 la Lombardia, 16 l’Emilia. E insieme alle materie, quattrini e personale (per esempio gli insegnanti, scuciti al ministero dell’Istruzione). Alla faccia delle diete, e soprattutto delle regole. Giacché neppure le regioni speciali hanno questo po’ po’ di competenze; e i loro statuti sono figli di altrettante leggi costituzionali, non d’una leggina regionale. Ma dopotutto è un nostro specifico talento, quello d’inventarci interpretazioni truffaldine della Costituzione. Difatti pure l’articolo 138 — che ne disciplina revisioni chirurgiche e puntuali — è stato adoperato contro se stesso, prima da Berlusconi (2005) poi da Renzi (2016), con l’ambizione di scrivere daccapo tutte le regole del gioco.

Nella vicenda dell’autonomia differenziata, però, s’aggiunge un’aggravante, perché le 23 materie non sono tutte uguali. Talune (la sanità, il lavoro, la scuola) toccano i diritti fondamentali, dunque non sono in vendita; altrimenti torneremmo all’epoca feudale, con garanzie diverse in ogni singola contrada. Anche perché i Lep — i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” — fin qui sono rimasti sulla carta: evocati dalla riforma costituzionale del 2001, nessun governo ne ha mai determinato per intero lo spessore.

Insomma, questo procedimento è un abuso, ed è pure un sopruso. Ai danni del Parlamento, in primo luogo. Siccome a febbraio il governo Conte ha firmato un’intesa con le tre Regioni, siccome l’intesa va poi recepita in legge, i nostri eroi dichiarano che le Camere non avrebbero il potere d’emendarla. Prendere o lasciare, come a Chemin de fer. E perché mai? Si può (si deve) viceversa ammettere la possibilità di un atto parlamentare d’indirizzo, che obblighi l’esecutivo a rinegoziare i vecchi accordi sulla base di precise direttive. Nessun Parlamento è un passacarte.

Oltretutto, a leggere il testo delle intese, gli spazi bianchi prevalgono rispetto a quelli anneriti dall’inchiostro. Li riempiranno, infatti, futuri decreti del presidente del Consiglio, cui spetta stabilire quali beni dello Stato, quali risorse finanziarie, quali dipendenti verranno trasferiti alle Regioni. Tutto l’opposto della procedura osservata in passato (nel 1972 e nel 1977), in occasione del primo decentramento di funzioni. Allora intervennero leggi di delega ( e dunque le assemblee parlamentari), seguite da decreti legislativi ( e dunque il Consiglio dei ministri). Stavolta, viceversa, basta un atto solitario deciso in solitudine dal premier, con l’aiuto d’una commissione. Né Mattarella, né la Consulta, né i deputati, né i senatori, né i ministri potranno mai metterci bocca. No, questa non è più l’autonomia differenziata. È un rifiuto giuridico, è raccolta differenziata.

Michele Ainis costituzionalista è ordinario all’università di Roma Tre Il suo ultimo libro è “Il regno dell’Uroboro” (La nave di Teseo, 2018) Mail: michele.ainis @uniroma3.it