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L'unità - Intervista a: Paul Ginsborg

Intervista a: Paul Ginsborg Intervista a cura di Renzo Cassigoli 21.01.2002 Attenti alla tirannia della maggioranza Sono ormai oltre cento i docenti dell'Università di Firenze che han...

22/01/2002
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l'Unità

Intervista a: Paul Ginsborg

Intervista
a cura di
Renzo Cassigoli

21.01.2002
Attenti alla tirannia della maggioranza

Sono ormai oltre cento i docenti dell'Università di Firenze che hanno sottoscritto l'appello con il quale invitano i fiorentini a manifestare 'contro gli attacchi mossi alla democrazia e a costruire insieme l'opposizione a questo governo', e a partecipare al corteo che giovedì prossimo alle 17 attraverserà il centro cittadino dall'Ateneo in piazza san Marco al Palazzo di Giustizia in piazza san Lorenzo. Un appello che esprime una preoccupazione e un malessere diffusi non solo negli ambienti culturali e dell'Università, viste le adesioni degli studenti, delle forze politiche, di parlamentari, dello stesso presidente della Regione Claudio Martini.
"Come non essere preoccupati quando sono in discussione l'autonomia della giustizia e dell'informazione, due pilastri della democrazia?", precisa Paul Ginsborg, docente di Storia moderna all'Università di Firenze che incontro nella sua casa di via dei Serragli in san Frediano, cuore dell'antico quartiere di Oltrarno, dove abita con la moglie Ayse Saracgil, docente di lingua e letteratura turca all'Università di Napoli.

Non a caso citate Alexis de Tocqueville, secondo cui nei paesi democratici le persone non possono fare a meno di un forte potere giudiziario e della libertà d'informazione.
Abbiamo aperto l'appello con Tocqueville perché lo scontro, ormai sembra incentrato sul rapporto tra forma e contenuto della democrazia. Alcuni anni fa, con il bipolarismo (che non rimpiango) si poteva stare da una parte o dall'altra ma dall'Ottantanove una delle due parti è venuta a mancare. Per Fukuyama è la fine della Storia, secondo me questo evento ci ha offerto la possibilità di osservare la democrazia nei suoi elementi costituenti e nei suoi valori alti, e di utilizzare i suoi elementi classici anche per misurarne il progresso o il regresso in un singolo paese. In questi ultimi anni la democrazia si sta estendendo, ma c'è qualcosa che non va se nei suoi territori si svuota di contenuti.

Nell'appello andate oltre i due pilastri della democrazia richiamando i rischi di una politica che apre la strada ai licenziamenti, indebolisce la scuola pubblica, presenta elementi di razzismo nel disegno di legge sull'immigrazione. Punti sui quali il governo sembra voler procedere a colpi di maggioranza.
Proprio così, la democrazia sta degradando anche in altri campi. Nella sua opera Tocqueville parla dei pericoli della tirannia della maggioranza dedicando molte pagine ai meccanismi capaci di impedirla. In democrazia la maggioranza ha il diritto di governare e di attuare il suo programma, anche se discutibile, ma non può utilizzare la sua vittoria elettorale per cambiare i fondamenti della Repubblica. Venendo alla scuola colpisce che in Italia non ci sia la netta divisione di classe che caratterizza, per esempio, l'istruzione nel mio Paese, l'Inghilterra, dove le scuole private (chiamate per ironia 'public school'), offrono alla borghesia che può permetterselo una istruzione nettamente superiore a quella della scuola statale. La privatizzazione è un sistema puramente classista e, pur con tutti i difetti, la scuola pubblica italiana ha avuto il pregio di evitarlo. E l'Italia dovrebbe esaltare questo ed altri pregi entrando in Europa. Quel che mi fa più rabbia è che si cerca di ricalcare il reaganismo e il thatcherismo di vent'anni fa proprio nel momento in cui si discute e si riflette sui guasti provocati dalla privatizzazione, per esempio nelle ferrovie inglesi.

Una contraddizione che rischia di allontanarci dall'Europa?
I pericoli ci sono, resta da vedere che strade prenderà la politica europea, di cui sentiamo la carenza. Mi ha colpito un certo ritorno a forme di 'autarchia' culturale. Ogni volta che in Europa si discute il 'caso' italiano c'è la risposta stizzita del governo di centro destra (ma spesso anche di elementi dell'opposizione di centro sinistra) che invita gli altri paesi europei a 'pensare alle cose loro che noi badiamo alle nostre', ignorando che ormai c'è in Europa una grande sfera pubblica di discussione e di critica. È qui che emerge il contenuto della democrazia: perché l'Italia, come gli altri paesi, non dovrebbe valorizzare le sue particolarità positive, come nel caso della scuola, ma anche della Giustizia, dove l'Italia ha lentamente guadagnato una maggiore autonomia che in Germania o in Francia? Perché dovrebbe abbassarsi al livello degli altri stati e non chiedere invece che altri si alzino al suo livello?

C'è coscienza di tutto ciò nel paese?
Per diverse ragioni non c'è assolutamente coscienza del momento storico che attraversiamo. Il fatto è che in questa fase i pericoli della democrazia non si manifestano in una forma classica, in modo visibile, con una rottura storica: di là la democrazia, di qua il regime. È qualcosa di molto più sottile, di più strisciante'

Può influire su questo il monopolio mediatico?
Ecco il punto. È qualcosa che procede con i programmi televisivi, qualcosa che si costruisce lentamente mentre si afferma che la democrazia non è in discussione. È il carapace formale, il corpo del processo storico è altro. Un tema sollevato dall'ultimo libro di Putnam il quale, riflettendo sul collasso della comunità americana, si chiede perché la gente non esca più a battersi con la società civile. Putnam propone molte cause, la stanchezza, la mancanza di tempo ma alla fine individua nella televisione il responsabile particolare del fatto che, in tutto l'occidente è in declino la capacità di 'stare insieme' a progettare e a crescere come cittadini. È questo il modello, incoraggiato, di una atomizzazione di cui, nel nostro piccolo, anche con il nostro appello cerchiamo di rompere il cerchio vizioso che ci circonda

E l'opposizione? Talvolta sembra comportarsi come se fosse ancora al governo caricandosi di responsabilità che non ha?
Dopo una sconfitta segue sempre una fase di disorientamento e non solo in Italia, poi la strada va ripresa. Ho l'impressione che la sinistra non sia ancora in grado di re-inventare la politica, di rimettere in questione la grande mappa della cultura della sinistra di cui oggi si ha un'idea sbagliata, nel senso che si basa su 'convention', convegni, ritiri, dove ognuno dice la sua ma dove non ci sono gruppi di lavoro capaci di ripensare le cose di fondo. Così la discussione diventa quasi uno spettacolo, uno strumento dell'immagine da usare nell'impari lotta mediatica. La produzione di idee nuove non viene da queste forme di cultura ma da gruppi di lavoro, impegnati e responsabili, consapevoli che le loro idee possano contare. Venendo alla sua domanda, non credo che la sinistra sia troppo 'governativa', semmai colgo un deficit di autocritica sull'esperienza di governo del centrosinistra.

Qual è la sfida, allora?
La sfida è realizzare una politica di sinistra coraggiosa, innovativa e insieme capace di appellarsi al buon senso delle persone. È difficile ma non impossibile. Penso che moltissimi stimoli possano venire dal movimento erroneamente definito 'No global' che, nelle sue parti migliorie, esprime una profonda e realistica critica su come funzionano i rapporti politici e culturali nel mondo moderno.