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L’università, la ricerca e gli eccessi dell’inglese

Per la prima volta in Italia le domande per accedere ai fondi di ricerca vanno redatte nella lingua di Shakespeare. Poi, se si vuole, si può fornire anche una traduzione italiana. Con alcuni risvolti quasi comici

28/04/2018
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la Repubblica

di Alberto Asor Rosa

Chi sa cosa sono i Prin? I Prin sono i “Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale”.

Ossia quelle proposte di ricerca scientifica in tutti i settori e sotto-settori dello scibile, che il Miur (il ministero dell’Università e della Ricerca scientifica) s’impegna a finanziare dietro accurato esame da parte di apposite commissioni, ovviamente anche loro disciplinatamente selezionate in base alle diverse competenze scientifiche. Si rivolgono ai ricercatori impegnati ai diversi livelli nelle università italiane.

Sono cioè una cosa estremamente importante. È chiaro che senza i Prin la ricerca scientifica universitaria sarebbe pressoché agonizzante. Per giunta, quest’anno l’investimento è particolarmente rilevante (penso): 391 milioni di euro.

Benissimo. Ora, il punto sul quale vorrei attirare l’attenzione è il seguente. All’articolo 4 del bando sono elencate le modalità di «presentazione della domanda». E cosa troviamo, per la prima volta nella storia dei Prin? Troviamo che «la domanda è redatta in lingua inglese»; e che, soltanto se il proponente decide di farlo, «può essere fornita anche una ulteriore ( ulteriore!) versione in lingua italiana». E cioè: l’immensa mole della ricerca scientifica universitaria italiana, per esprimersi ed essere riconosciuta nelle sua validità, deve esprimersi, per farsi riconoscere, in lingua inglese. Solo se lo si desidera — è una specificazione chiaramente di secondo ordine e piano —, può tentare di spiegarsi anche nella ormai antiquata e inappropriata lingua italiana. E cioè: l’interesse nazionale dei Prin deve essere «rilevante»: e però, nonostante l’altisonante autocertificazione, la nazione non entra più, nei modi che le sono propri, nella definizione della richiesta.

Potrebbero verificarsi casi di questo genere (e probabilmente si sono verificati). Se fossi ancora in servizio quest’anno, avrei presentato una domanda così formulata: «I intend to carry out research on Dante’s usage of the tercet in the Comedy as a contribution to our knowledge of the early Italian language».

Ovviamente è un caso estremo, che porta alla risibilità più totale la richiesta del Miur. Ma non vorrei fare distinzioni fra settore scientifico e settore scientifico né fra materia e materia. Perché mai i matematici, i fisici, gli ingegneri, i medici, i giuristi, non dovrebbero formulare le loro richieste nella lingua che è loro propria, e cioè appunto, nazionale, come hanno sempre fatto? Ipotesi: si vuol rendere la cosa più semplice ai commissari che magari potrebbero non conoscere una parola d’italiano (anche questo può accadere)? Allora la formula più corretta sarebbe: «La domanda è redatta in italiano» (veramente non ci sarebbe bisogno di dirlo), e: «A scelta del proponente in una delle lingue straniere che hanno maggiori attinenze con argomenti e obiettivi della ricerca» (che so, il giapponese, se la ricerca riguardasse laStoria di Genji della Signora Murasaki, o in francese, se riguardasse Madame Bovary di Flaubert). Sullo sfondo — a parte le domande di ricerca —, c’è una questione immensa, che in chiusura possiamo solo sfiorare. È presente a livello globale, ma in Italia, come sempre qui da noi accade, in forma più virulenta, ed è la seguente. Una lingua è uno strumento d’informazione, — serve a sapere quanto più si può; ma è anche uno strumento di comunicazione, — serve a trasmettere quanto più si può. Ma è anche uno strumento identitario, anzi lo strumento identitario più possente che esista. Ossia: uno è la lingua che parla. Se non la parla, non la legge e non la scrive più, l’identità va a farsi benedire. E, naturalmente, se, come penso, il fenomeno va generalizzandosi, è evidente che il rischio è ancora maggiore. Se la prospettiva è questa, tanto varrebbe essere conseguenti fino in fondo. E cioè: si potrebbe decidere e richiedere che dall’anno prossimo non solo le domande di ricerca, ma anche i risultati, che in seguito ai finanziamenti erogati ne possono scaturire, siano in inglese. Perché no? In un paese come l’Italia dove la conoscenza delle lingue straniere fa pena, la ricerca scientifica “nazionale” farebbe invece un balzo in avanti, immergendosi di colpo, senza più intermediazioni antiquate, nell’universo della comunicazione scientifica universale. Un altro brandello d’identità sarà strappato, almeno potremo rinunciare, per regolamento, alla scomoda e inutile stesura del riassuntino nella lingua degli avi, e cioè il pereunte italiano.