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La Buona Scuola: cosa salvare

Andrea Gavosto, Fondazione Agnelli

14/09/2018
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la Repubblica

Le prime mosse del nuovo governo in campo scolastico sono rivolte a cancellare alcuni pezzi della Buona scuola. Fra questi, la ( limitata) possibilità del dirigente scolastico di scegliere i docenti che più servono al proprio istituto, l’alternanza scuola- lavoro e l’obbligo di partecipare ai test Invalsi per accedere all’esame di maturità, come ha spiegato il ministro Bussetti a RepubblicaTv. Benissimo, si dirà: la riforma del governo Renzi è impopolare fra i docenti, mal disegnata in origine, preoccupata soprattutto di assumere schiere di precari senza verificarne le competenze (ma in questo caso l’attuale governo non sembra cambiare rotta).

Le misure già prese e altre annunciate in Parlamento – come la completa eliminazione dei test Invalsi – fanno intravedere, tuttavia, un disegno più ampio: come se la maggioranza giallo- verde volesse progressivamente minare il modello di autonomia che ha guidato la scuola negli ultimi 20 anni, senza che però traspaia un’alternativa chiara e credibile. La scuola dell’autonomia, voluta da Luigi Berlinguer, prevede che gli istituti abbiano ampi margini di manovra sui contenuti e gli orari degli insegnamenti, superando la rigidità dei vecchi programmi ministeriali; la gestione delle risorse umane e finanziarie, con un ruolo rafforzato dei presidi; il rinnovamento della didattica; la risposta agli specifici bisogni dei territori. Così è, anche in modo più spinto, in molti paesi europei. L’autonomia deve però andare di pari passo con una seria rendicontazione dei risultati delle scuole al ministero e alle famiglie, a partire dagli apprendimenti: di qui la necessità di un sistema di valutazione, ancora inviso a molti docenti. Di una valutazione che confronti le scuole per sapere di ognuna a che livello si colloca e aiutarne il miglioramento. Va detto che, pur con alcuni successi, l’autonomia non ha raggiunto i suoi obiettivi. Oggi la scuola non è così diversa da 20 anni fa. È mancato il coraggio di spingersi fino in fondo e, alla fine, chi di fatto ha lasciato languire l’autonomia è la stessa sinistra riformista che l’aveva creata. In parte per motivi nobili, come il timore che accentui i divari fra scuole, già eccessivi nel nostro Paese, con il rischio che le migliori attraggano gli insegnanti e gli studenti più bravi, lasciando le altre in un circolo vizioso; in parte per motivi meno nobili, come la paura di scontentare gli insegnanti ( è successo comunque!), storicamente orientati a sinistra, ma spesso conservatori per quel che riguarda criteri di assunzione, orari di lavoro, restii ad accettare di non essere tutti egualmente bravi e motivati. Ma se la stagione dell’autonomia scolastica si sta esaurendo, qual è il modello di scuola del " governo del cambiamento"? Non è affatto chiaro. Il M5S asseconda le pulsioni egualitarie dei docenti, sacrificando ogni possibilità di distinzione e carriera in base al merito, depotenziando il ruolo di presidi e valutazione. C’è forse nostalgia del centralismo, quando tutto era deciso dal ministero attraverso circolari e graduatorie? Oggi, però, non è pensabile governare così un sistema di un milione di insegnanti, 8 milioni di studenti e 80.000 scuole, con bisogni complessi e diversificati. E, davvero, sappiamo che fra i docenti «uno vale uno» non funziona. Nel Dna della Lega vi è invece la scuola delle regioni, alle quali trasferire tutte le competenze sull’istruzione. Contando su ampie risorse, Lombardia e Veneto sarebbero in grado di garantire risultati scolastici eccellenti e disegnare i sistemi più adatti alle esigenze di sviluppo locale. Ma le regioni del Sud, già oggi nelle ultime posizioni in Europa? Il rischio è che, lasciate da sole, sprofondino ancora di più, accentuando la frattura fra le due Italie. La scuola italiana è forse a un passaggio importante: da un modello incompiuto e probabilmente già esaurito a un altro i cui contorni ancora non si vedono, ma potrebbero svelare un ircocervo di visioni incompatibili e perciò irrealizzabili. Limitarsi a distruggere, senza riflettere su dove si vuole andare, sarebbe un rimedio peggiore del male.

Andrea Gavosto è direttore della Fondazione Agnelli