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La diaspora dei ricercatori «Più qualità, meno clientele Noi all’estero per passione»

PARLA L’ESERCITO SILENZIOSO DEI NOSTRI EMIGRATI INTELLETTUALI: NON SONO FIGLI DI PAPÀ, LASCIANO LE REGIONI PIÙ RICCHE E NON INSEGUONO I SOLD

08/07/2018
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Corriere della sera

Federico Fubini

Si parla tanto in Italia di coloro che arrivano da dimenticarsi gli altri: quelli che vanno. Gli emigrati italiani non approdano in altri Paesi senza documenti e non chiedono asilo, ma lavoro, e a volte una carriera agli snodi più avanzati dell’economia della conoscenza. A migliaia fra loro sono fra i più qualificati e competitivi nei maggiori centri di ricerca del mondo. A fronte di un flusso di sbarchi dal Nord Africa in Italia di circa 30 mila persone l’anno, gli italiani che lasciano il proprio Paese ogni anno sono quasi quattro volte più numerosi secondo i dati dell’Istat. In realtà, senz’altro molti di più: le statistiche ufficiali italiane a volte non li vedono emigrare, perché chi parte spesso non si cancella subito dal comune originario di residenza. Sono i rendiconti delle autorità di alcuni Paesi di destinazione — Germania, Gran Bretagna, Svizzera o Spagna — che rappresentano meglio ciò che accade, perché gli italiano devono iscriversi subito: i numeri fra doppi e quadrupli di quelli registrati in Italia. Questi emigranti potrebbero essere ogni anno quasi dieci volte più numerosi di coloro che sbarcano, benché la politica — oggi come ieri — si occupi di loro cento volte di meno.

Questa diaspora contemporanea resta in parte sconosciuta nelle proprie motivazioni. Forse il ceto più inascoltato fra i nati in Italia. Per questo il Corriere ha deciso di dare parola a questi connazionali, a molti dei più qualificati fra loro. Con l’aiuto delle associazioni di ricercatori italiani in Gran Bretagna (Aisuk), in Nord America (Issnaf), Francia (Récif), Cina ( Aaiic), Sudafrica (Nirc e Nirnep), Norvegia e Islanda (Comites Oslo) e di un’ulteriore rete transnazionale (Airicerca) che raccoglie adesioni anche in Germania e Svizzera, abbiamo lanciato un sondaggio fra i lavoratori italiani della conoscenza nel mondo. Ne abbiamo raggiunte molte migliaia, hanno risposto in poco più 750. Abbastanza per farsi un’idea delle loro età oggi e quando sono partiti, dei loro percorsi personali e delle loro radici sociali e familiari, delle loro riflessioni al momento di lasciare l’Italia, dei pensieri che li attraversano all’idea di tornare e del modo in cui vedono il loro Paese di origine. Decine di loro, dopo aver compilato il sondaggio ci hanno scritto lettere sempre intelligenti e profonde a volte toccanti (le riportiamo su corriere.it, insieme ai risultati integrali del sondaggio).

Ne esce un quadro di orgoglio personale e nazionale, frustrazione, puntiglio, passione per il lavoro fatto bene più che semplicemente per la propria carriera o il denaro che ne deriva. Un universo di italiani scettici o critici sullo stato e il senso di marcia del loro Paese natale, quasi sempre consapevoli del valore difficilmente superabile dei talenti che continua a esprimere.

Questi italiani ancora oggi hanno per quasi due terzi (63%) meno di 40 anni. Benché in nove casi su dieci si siano laureati in Italia e in quasi otto su dieci in Italia abbiano conseguito in Italia anche il primo titolo post-laurea, non hanno aspettato a lungo. «Non ci siamo messi in fila» dice Elena Orlando, un’astrofisica di Stanford. Si sono mossi presto. Otto su dieci stavano già svolgendo attività di ricerca remunerata all’estero entro i trent’anni di età. Colpisce come quasi metà delle risposte al sondaggio del Corriere sia arrivato da ricercatrici, senz’altro una quota più alta rispetto al 30% circa di personale femminile attivo in questo settore in Italia e quasi ovunque in Europa. Una di loro, Paola Malerba dell’Università di California Irvine, ha esplicitamente indicato «l’endemico, eterno e devastante maschilismo» come ragione per aver rinunciato a una carriera in Italia.

Rivela qualcosa delle fratture territoriali del loro Paese di origine, in base alle nostre 750 risposte, l’origine regionale di questa diaspora intellettuale. Vi risultano decisamente sovra-rappresentate, rispetto al peso demografico relativo sulla popolazione italiana, regioni ricche e dinamiche come la Lombardia, il Veneto o la vasta conurbazione di Roma; esprimono invece meno ricercatori all’estero, in proporzione al loro peso demografico nel Paese, alcune delle regioni più povere di lavoro e sviluppo educativo: Campania, Calabria e Sicilia.

Questi emigrati colti sono spesso figli di una borghesia piuttosto istruita: quasi un terzo dei loro genitori ha una laurea, oltre il doppio rispetto alle medie nazionali per le generazioni nate fra anni '30 e gli anni ’50. Eppure i loro discendenti sono tutto, meno che figli di papà. Gli italiani della diaspora non restano fermi nel solco socio-professionale nel quale hanno avuto la ventura di nascere. In nove casi su dieci non svolgono mestieri simili a quelli delle madri o dei padri. Non usano l’agenda del telefono di questi ultimi per portarsi avanti nella vita.

Lo si capisce del resto dalle motivazioni che offrono per spiegare la scelta di vita dell’emigrazione. La voglia di accelerare la carriera o di guadagnare di più non figura fra le prime tre ragioni. Le due indicate più spesso, in metà delle risposte, rivelano molta più attenzione e ambizione per un’elevata qualità della ricerca e dei colleghi: «La qualità complessiva del lavoro era migliore nel luogo, fuori dall’Italia, che ho scelto» e «Le mie opportunità in Italia erano limitate da un ambiente inquinato da clientelismo, familismo o corruzione». Dice Silvia Macchione, una 28enne calabrese dottoranda in neuroscienze all’Inserm di Lione: «Nel momento esatto in cui ho messo piede qui dentro ho capito che non me ne sarei andata facilmente. I laboratori stranieri sono dei veri maestri nel pescare nel nostro bacino di conoscenze, le quali — ahimè — andranno a fare grande la ricerca di altri Paesi». Andrea L’Afflitto, un ingegnere aerospaziale dell’Università dell’Oklahoma, premette che deve «tantissimo ai miei insegnanti delle scuole elementari, medie e superiori», ma sottolinea la differenza: «Qui la competizione è a dir poco brutale, ma se si è in gamba si emerge senza tener conto dell’età e del rango accademico».

Non stupisce dunque che questi emigranti intellettuali non abbiano molte speranze o voglia di rientrare, per le stesse ragioni che hanno innescato l’uscita dal Paese: diffidenza verso il clientelismo, scetticismo all’idea di poter lavorare bene. Dice Primavera Spagnolo del National Institute of Health di Bethesda (Maryland): «Tornerei? Assolutamente sì. L’Italia regala una bellezza quasi sfacciata, perché si impone agli occhi nonostante i continui sfregi. Del mio Paese mi mancano anche i diritti acquisiti e il welfare, ma ho il terrore che rientrare equivalga a buttare via tutto ciò che ho acquisito». Pochi di loro si fanno illusioni sull’idea che esista una sistemazione ideale. L’Afflitto, dall’Oklahoma, scrive di una sua precedente esperienza di lavoro: «Ricordo ancora con una punta di dolore l’atteggiamento sostanzialmente razzista di molte persone in Germania». Aggiunge Alessandro Angerilli della Ludwig Maximilian Universität di Monaco: «Il familismo, il clientelismo, la corruzione morale e le raccomandazioni esistono anche in Germania. Però parlarne è un tabù e l’eccesso di soldi nella ricerca rende tutti felici».

Nessuna amarezza all’estero cambia il giudizio di questi ricercatori sul loro Paese di origine, benché tutti sottolineino di trovare sempre gli italiani fra i più bravi in giro per il mondo. Il 47% di loro giudica «negativa» o «molto negativa» la situazione dell’Italia e un altro 40% la trova «mediocre». E tre su quattro fra questi migranti della conoscenza concludono: l’Italia sta andando «nella direzione sbagliata».