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La «grande trasformazione» dell’Università italiana

l’adozione delle logiche gestionali del New Public Management all’interno dell’università italiana (ad esempio, mediante il “mito razionalizzato” della qualità e i sistemi di valutazione premiale) non solo fallisce l’obiettivo

23/04/2018
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ROARS

Pubblichiamo un estratto del saggio di Davide Borrelli e Maria Luisa Stazio che introduce il recente numero monografico della Rivista di scienza dell’amministrazione (integralmente accessibile in Open Access). Il numero contiene una riflessione a più voci sulla “grande trasformazione” vissuta dall’Università italiana negli ultimi anni e sull’impatto delle politiche sulla problematica condizione dell’istruzione superiore nel nostro Paese. Ne deriva un quadro fortemente critico e negativo: l’adozione delle logiche gestionali del New Public Management all’interno dell’università italiana (ad esempio, mediante il “mito razionalizzato” della qualità e i sistemi di valutazione premiale) non solo fallisce l’obiettivo di ampliare il bacino di utenza della formazione terziaria, ma tende a produrre effetti perversi e disfunzionali, che moltiplicano le forme di dominazione e di comando all’interno del sistema della ricerca scientifica e accentuano gli squilibri e le differenze territoriali.

L’università gioca, o dovrebbe essere messa in condizione di giocare, un ruolo strategico nella promozione del benessere di un Paese. Non soltanto nella crescita economica, ma anche nello sviluppo territoriale, nella diffusione delle innovazioni tecnologiche e organizzative, nella promozione della vita civile e politica, nel potenziamento complessivo delle capacità e della cittadinanza, e in generale nel miglioramento della qualità della vita (Nussbaum, 2010, 2011).

Non è un caso che nel Rapporto sulla conoscenza in Italia presentato dall’ISTAT nel febbraio 2018, la voce «università» attraversi quasi tutti i 38 quadri tematici oggetto di indagine: da quello più ovvio sulle competenze di base, al coinvolgimento in attività creative e culturali, alle abilità digitali, alle attività svolte online. Ma l’Italia descritta nel Rapporto fa registrare un preoccupante ritardo storico nell’istruzione terziaria. Nel 2016 la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con almeno un titolo di laurea era di appena il 17,7%, pari a poco più della metà del rispettivo valore europeo (30,7%). Tra i 25 e i 34 anni la percentuale arriva fino al 25,6%, ma a fronte di una media UE del 38,2% (meno 12,6 punti).

In questo deficit di istruzione complessivo vi è poi da rilevare un dato di squilibrio interno che fotografa l’arresto dell’ascensore sociale nel nostro Paese: l’incidenza dei laureati tra i figli di genitori con bassa istruzione in Italia resta tra le più basse nell’Unione Europea. In pratica, la strada di questi giovani appare già tracciata dall’orientamento nelle scuole superiori, condizionato in misura notevole dalla famiglia d’origine: «nel 2016, avevano conseguito un diploma liceale quasi il 60% dei diplomati i cui genitori avevano un titolo universitario, il 30% quando i genitori avevano un diploma secondario e appena il 21% quando i genitori avevano al più la licenza media».

Questi orientamenti corrispondono a tassi di transizione più modesti verso il sistema universitario e si riflettono in livelli di competenze generali molto differenziati: «negli istituti professionali, dove affluiscono in prevalenza i figli di genitori meno istruiti, le competenze linguistiche e numeriche dei quindicenni sono drammaticamente inferiori a quelle dei loro coetanei liceali, e nel 2016/17 i tassi di passaggio all’università dei diplomati si arrestano all’11,3%, contro il 73,8% dei licei».

Se la scarsa istruzione dei genitori ricade sui figli, riproducendo e approfondendo il divario socio-economico, il livello di istruzione terziario si riflette in tutti gli ambiti della vita: individuale, sociale, politica, culturale. Si consideri, ad esempio, il ritardo complessivo dell’Italia nella diffusione delle tecnologie digitali: gli utenti regolari di Internet tra 16 e 74 anni si fermano al 69%, rispetto all’81% della media UE. In particolare, tra i laureati di età compresa tra i 65 e i 74 anni gli utenti regolari sono il 73,7%, contro una media nazionale del 27% nella stessa classe d’età.

Un fenomeno significativo messo in luce dal Rapporto sulla conoscenza è poi la correlazione tra istruzione degli addetti e performance delle aziende, con particolare riferimento alla spina dorsale della nostra economia, costituita perlopiù da imprese medie e piccole. Ad esempio, ogni anno in più di istruzione degli addetti avrebbe aumentato di quasi l’8% la probabilità di sopravvivenza delle imprese tra il 2011 e il 2015. Inoltre, tra le imprese sopravvissute «ogni anno in più di scolarità degli addetti risulta aver avuto un impatto differenziale sull’andamento medio annuo del valore aggiunto pari a quasi il 5%». Inoltre, il crescere del livello di istruzione nelle imprese va di pari passo con la capacità di adottare applicativi di gestione dei flussi informativi e con la qualità delle esportazioni italiane, soprattutto nei settori tradizionali del Made in Italy.

In breve, secondo il Rapporto, i livelli d’istruzione di imprenditori e dipendenti hanno un «riflesso importante su diverse variabili di performance: sulla produttività del lavoro, sulla sopravvivenza nel periodo 2011-2015 e, per i sopravviventi, sulla dinamica del valore aggiunto».

Va detto, però, che il livello medio d’istruzione degli imprenditori delle piccole imprese italiane resta relativamente modesto(11,4 anni di scolarità pro capite nel 2015). Il titolo di studio più diffuso è il diploma, mentre il 37,7% ha al più la licenza media inferiore, e soltanto il 14,6% ha un’istruzione universitaria. I frequenti richiami all’inutilità della laurea e le esortazioni a studenti e famiglie a scegliere studi tecnici – e, possibilmente, a fermarsi lì – diffusi con regolarità da imprenditori e da una stampa attenta ad esigenze imprenditoriali schiacciate sul presente, vanno probabilmente letti attraverso questa lente.

Ma che la laurea sia tutt’altro che inutile dal punto di vista occupazionale, lo dimostra – sempre secondo il Rapporto – il fatto che nel 2016 i tassi di occupazione delle persone tra 25 e 64 anni con titolo di studio elevato (laurea e titoli assimilati) erano superiori di 28,6 punti percentuali rispetto alle persone con al più un titolo secondario inferiore: il 79,8% contro il 51,2%.

Vale la pena di riflettere, infine, su un dato che ci pare particolarmente emblematico del valore aggiunto che può produrre un elevato titolo di studio, anche solo nei termini basici della longevità: le tavole di mortalità per livello d’istruzione mostrano che un laureato italiano maschio ha mediamente un’aspettativa di vita di 5,2 anni superiore a quella di chi ha una licenza media (Viesti, 2 Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, n. 1/2018 – p. 26).

Quelle che abbiamo ricordato sono soltanto alcune delle evidenze più significative che mostrano come il miglioramento del livello di istruzione superiore della popolazione rappresenterebbe un ambito privilegiato e strategico di intervento, nel momento poco felice che il Paese sta attraversando. E in effetti, non si può dire che negli ultimi anni l’università italiana non sia stata al centro di un compulsivo processo di riformismo normativo, che ne ha radicalmente cambiato la pelle ridefinendone funzioni, bilanci, strutture di governance, modalità organizzative, prospettive di carriera e offerta formativa (Viesti, 2016; Morcellini, Rossi e Valentini, 2017).

Ma sarebbe davvero arduo sostenere che queste innovazioni siano state varate per intervenire sui reali nodi critici e sui fattori di debolezza del sistema di formazione terziari documentati attraverso il Rapporto ISTAT. La «grande trasformazione» (Polanyi, 1944) della nostra università è stata condotta all’insegna di una agenda essenzialmente neoliberista improntata ai principi del New Public Management (Hood et al., 1999), e riproduce grosso modo nella sua filosofia e nel suo impianto generale l’analogo processo di ristrutturazione della formazione superiore promosso nel Regno Unito in epoca thatcheriana.

Per dare l’idea di come in quel Paese sia radicalmente cambiata l’università nell’arco di ben poco tempo, il fisico John Ziman (1994) ha immaginato lo sconcerto di un’astronoma reduce da una missione spaziale, di brevissima durata alla velocità della luce, ma corrispondente a qualche anno sulla Terra: tornando al proprio dipartimento universitario avrebbe trovato un ambiente irriconoscibile rispetto al momento della sua partenza, così come avrebbe fatto fatica a immedesimarsi nel nuovo regime di verità accademico. Analogo discorso si può fare oggi anche per l’università italiana, dove negli ultimi anni abbiamo assistito alla proliferazione di una produzione discorsiva tradizionalmente estranea al contesto della ricerca scientifica, attraverso parole e concetti come “premialità”, “accountability”, “assicurazione della qualità”, “prodotti della ricerca”, “centri e dipartimenti di eccellenza”, “ranking delle riviste”: insomma, per citare Ziman, «in meno di una generazione siamo stati testimoni di una radicale, irreversibile, globale trasformazione del modo in cui la scienza è gestita e realizzata» (1994, p. 7).

Il problema è che, a nostro avviso, la «grande trasformazione» che è stata promossa non soltanto non ha realizzato quell’inversione di rotta di cui avremmo bisogno per aumentare la massa critica di ricerca e istruzione nel nostro Paese e portarci almeno ai livelli della media europea, ma sembra addirittura aggravare i mali endemici del nostro sistema. È una trasformazione concepita per svilupparsi lungo una duplice direttrice: da una parte, avvicinare l’università alle istanze del mercato, e dall’altra introdurre logiche di mercato all’interno del motore e del governo stesso dell’università.

Nel primo caso si è tentato, in buona sostanza, di propiziare un maggiore raccordo degli atenei e delle relative offerte formative con il sistema produttivo, puntando sulla formazione di un «capitale umano» immediatamente occupabile e facendo in modo che le università fossero sempre più costrette a ricorrere a risorse aggiuntive rispetto al Fondo di Finanziamento Ordinario erogato dallo Stato, che parallelamente è stato ridotto a partire dal 2008.

Nel secondo caso si è inteso costruire un mercato competitivo all’interno del sistema universitario nazionale, sia attraverso la differenziazione dell’offerta formativa dei corsi di studio, in verità spesso più proclamata che praticata (Borrelli et al., 2017), sia attraverso esercizi periodici di valutazione e assicurazione della qualità (VQR, AVA) gestiti da una agenzia paraministeriale appositamente istituita (l’ANVUR), dai quali si ricavano discussi ranking di merito, funzionali a individuare le strutture di “eccellenza” destinatarie di finanziamenti premiali, nonché – nelle intenzioni del legislatore – a orientare le scelte di immatricolazione da parte dei potenziali “clienti”.

Questa metamorfosi del sistema di formazione superiore è stata imposta a livello politico in modo sostanzialmente bipartisan, come se non vi fossero davvero scelte alternative e nel più classico clima da «realismo capitalista», cioè secondo una «“ontologia imprenditoriale” per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda» (Fischer, 2009, p. 51).

Sta di fatto, tuttavia, che tra studiosi e addetti ai lavori la «grande trasformazione» dell’università italiana sembra aver suscitato più critiche che consensi (Ribolzi, 2013; Bonaccorsi, 2015). Per comodità espositiva gli approcci critici si possono suddividere grosso modo tra quelli che hanno denunciato che si è fatta una riforma sbagliata nei fini e nei principi (ad esempio: Pinto, 2012, 2013; Coin, 2013; Borrelli, 2015a, 2016, 2018; Bertoni, 2016; Mauro, 2018) e quelli che hanno messo variamente in evidenza soprattutto che è stata concepita, attuata e gestita in modo scorretto, disfunzionale e incoerente (tra i quali: Baccini, Coin e Sirilli, 2013; Morcellini, 2013; Valentini, 2013; Fiorentino, 2015; Viesti, 2016, 2018; Palumbo e Pennisi, 2014; Borrelli, 2017; Fasanella e Martire, 2017; Capano, Regini e Turri, 2017; Rossi, 2018; Palumbo, 2018).

Va da sé che in ciascuno degli autori citati non sempre è possibile distinguere dove finisce un tipo di critica e dove comincia l’altra.

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BIBLIOGRAFIA

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