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La mobilitazione dei professori universitari può essere un buon segno?

Sapranno i professori universitari dialogare con studenti, dottorandi, precari, personale tecnico amministrativo ed accettare in prospettiva un allargamento della protesta?

21/07/2017
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ROARS

L’annuncio di uno sciopero dei professori universitari programmato il prossimo settembre sta producendo molte e diverse reazioni, e una notevole eco sui media. Forse perché nessuno ricorda uno sciopero proclamato in Italia direttamente dai professori. Questo sciopero segnala che le coscienze intorpidite dei docenti si stanno svegliando? Potrà rappresentare un primo passo per rimettere in discussione le politiche della ricerca e della università di questi ultimi decenni? Sapranno i professori universitari dialogare con studenti, dottorandi, precari, personale tecnico amministrativo ed accettare in prospettiva un allargamento della protesta?

Lo sciopero è stato indetto dal Movimento per la dignità della docenza universitaria, coordinato dal prof. Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, con un documento firmato da circa 5.500 docenti. Le ragioni dello sciopero sono molto specifiche. I professori non chiedono aumenti di stipendio, come pure si è letto su qualche quotidiano; chiedono che l’orologio della loro anzianità lavorativa ricominci a scorrere come per tutti gli altri lavoratori in regime di diritto pubblico non contrattualizzati. Mentre per questi ultimi l’orologio è ripartito il 1° gennaio 2015, assieme al recupero di tutta l’anzianità congelata, per i professori lo sblocco è avvenuto un anno più tardi, ma senza alcun recupero dell’anzianità.

E’ opportuno anche ricordare che tutto questo avviene dopo il cambiamento radicale delle retribuzioni di tutti i professori previsto dalla legge Gelmini nel 2010. Prima della Gelmini i professori si vedevano riconoscere scatti di anzianità al compimento di ogni biennio. Adesso, gli scatti non solo sono diventati triennali, ma non sono più automatici: lo scatto è concesso solo a coloro che ricevono una valutazione positiva del lavoro svolto, secondo regole stabilite da ciascuno ateneo.

Lo sciopero dei professori prevede che quanti aderiranno non tengano solo il primo appello della sessione di esami del mese di settembre. Certo, ci saranno disagi per gli studenti, ma è del tutto ragionevole pensare che saranno ridotti: nelle sedi in cui nel mese di settembre sono previsti due appelli, il secondo si terrà comunque; dove è previsto un solo appello di esame, c’è l’impegno a garantire comunque un appello straordinario a 15 giorni di distanza da quello che è saltato.

Questa curiosa forma di protesta arriva a circa un anno e mezzo di distanza da un’altra protesta, forse anche più strana, che prese il nome di #stopvqr. Nei primi mesi del #2016 gli aderenti allo #stopvqr si rifiutarono di partecipare alle procedure di valutazione della qualità della ricerca (VQR) realizzate dall’agenzia governativa per la valutazione ANVUR. Gli aderenti a #stopvqr si rifiutarono di inviare all’agenzia i due libri/articoli che l’agenzia avrebbe poi valutato. I rettori e moltissimi professori si indignarono per quella protesta perché ritenevano che avrebbe danneggiato le istituzioni, senza costare niente a chi la attuava. Così molti rettori si sostituirono ai protestatari nella scelta e nell’invio all’ANVUR dei libri/articoli per la valutazione.

La fine della storia è istruttiva: ANVUR rilasciò un comunicato stampa in cui sosteneva che la protesta era fallita e che la valutazione procedeva tranquillamente. In realtà la protesta inserì molti granelli di sabbia negli ingranaggi della valutazione, tanto che il MIUR, per distribuire i finanziamenti agli atenei, ha dovuto ricorrere ad un complesso algoritmo per sterilizzarne gli effetti. Nel frattempo, gli atenei hanno cominciato a scrivere le regole per gli scatti stipendiali dei professori. E in molti atenei i regolamenti prevedono che lo scatto stipendiale sia concesso solo se il professore ha partecipato alla VQR. Di fatto questi regolamenti hanno bloccato una forma di protesta pensata proprio per non danneggiare gli studenti, e che aveva ricevuto l’appoggio di alcune delle loro organizzazioni.

Ed eccoci allora allo sciopero di settembre. Sciopero corporativo, dicono alcuni; e v’è chi ha affermato che, in un momento così difficile per l’università, non è il caso di fare una rivendicazione come lo sciopero degli esami; insomma, ci sarebbe “BEN ALTRO” per cui protestare nell’università. In effetti c’è MOLTO ALTRO per cui la comunità universitaria nel suo complesso – docenti, personale tecnico amministrativo, studenti e loro famiglie – dovrebbe protestare.

Come abbiamo innumerevoli volte documentato sulle pagine di ROARS, nonostante la retorica sulla società della conoscenza e gli impegni in merito sottoscritti dall’Italia in sede europea, dal 2009 ad oggi l’università e la ricerca sono il comparto della pubblica amministrazione che ha subito la più drastica cura dimagranteLa spesa per l’università rispetto al PIL è la più bassa dei paesi OCSE (solo il Lussemburgo fa peggio di noi). Durante gli anni della crisi, mentre tutti gli altri paesi europei hanno aumentato la spesa per istruzione e ricerca, noi l’abbiamo ridotta, restando ben al di sotto del 3% di spesa in R&D assegnata dalla strategia di Lisbona ai paesi dell’UE. Il personale docente dell’università si è ridotto del 20%, passando dai circa 63mila docenti nel 2008 ai circa 50mila del 2015. Nel frattempo si è creato un piccolo esercito di personale non strutturato precario che svolge compiti di didattica e di ricerca, spesso in forma gratuita, e che non vede alcuna possibilità di un lavoro stabile. C’è la valanga crescente di adempimenti burocratici che distoglie la comunità universitaria dai compiti che le sarebbero propri. C’è una pervasiva invadenza delle pratiche di valutazione della ricerca e della didattica che stanno restringendo gli spazi di libertà garantiti dalla costituzione. C’è il problema del diritto allo studio, con il fenomeno tutto italiano degli studenti che hanno diritto ad una borsa di studio, ma che non la ricevono per mancanza di risorse. C’è infine, ma l’elenco è solo parziale, la questione meridionale dell’università, con il vertiginoso aumento  del divario tra Centro-Nord e Sud/Isole del Paese.

Sono quindi molti i problemi per cui c’è spazio e materia di protesta. Ma forse vale la pena osservare che anche la questione degli blocco differenziale degli scatti ha una sua valenza più generale. Per capirlo ci si può porre la seguente domanda: come mai i docenti universitari sono stati discriminati rispetto agli altri lavoratori del pubblico impiego non contrattualizzati?

La risposta a questa domanda è il frutto di decenni di narrativa nazionale sull’università e della scarsa considerazione che i “policy makers” (ah, l’inglese!) hanno dell’università, della ricerca e in particolare di coloro che dovrebbero portarla avanti, cioè i docenti universitari. A costoro, appartenenti a istituzioni secolari che hanno mantenuto e sempre mantengono (nonostante tutto) una certa autonomia rispetto al potere politico, vengono preferiti altri enti di ricerca, creati ad hoc con personale scelto al di fuori delle normali procedure concorsuali e docile al munifico erogatore di tale beneficio. I professori universitari – una volta corteggiati per essere fiore all’occhiello nelle liste elettorali – sono stati oggetto di una metodica opera di screditamento, basata sull’idea di una scienza nazionale in declino e di una università nella sostanza inutile. Non più ritenuti un “asset” (di nuovo!) su cui investire, i professori e le loro università vengono sottoposti a pervasive procedure di controllo centralizzato, attuate spesso attraverso una burocratizzazione crescente del lavoro di didattica e ricerca. Controllo e burocratizzazione da cui sono generosamente esentate, in tutto o in parte, le istituzioni create dal potere politico e le università private e telematiche.

Tutto ciò i docenti universitari – categoria tra le meno sindacalizzate e con minore coscienza di ceto – lo hanno sinora hanno subito in rassegnato silenzio, esprimendosi con i mugugni e le lamentele davanti alla macchina del caffè o nei corridoi; oppure sviluppando, quando possibile, un senso opportunistico di adattamento, tentando cioè di ricavare per sé/il proprio gruppo/dipartimento/ateneo qualche briciola in più di una torta sempre più piccola, magari sottraendola a un “rivale” operante nella stessa istituzione. D’altro canto i rettori in questi anni hanno di fatto assecondato qualsiasi politica governativa, purché questa fosse accompagnata da qualche briciola in più di finanziamento, o assai spesso dalla semplice promessa di briciole future. Per questo hanno dovuto tenere sotto controllo quelli che la legge Gelmini ha trasformato in loro sottoposti, rintuzzandone i pochi segnali di riottosità, come avvenuto nel caso della protesta #stopvqr.

Ed ora questo sciopero sta finalmente suscitando attenzione, conquistando per la prima volta le prime pagine dei quotidiani nazionali.

Le questioni in gioco a nostro parere sono: questo sciopero segnala che le coscienze intorpidite dei docenti si stanno svegliando? Potrà rappresentare un primo passo per rimettere in discussione le politiche della ricerca e della università di questi ultimi decenni? Sapranno i professori universitari dialogare con studenti, dottorandi, precari, personale tecnico amministrativo ed accettare in prospettiva un allargamento della protesta? Se dovesse concludersi solo con una rivendicazione salariale e di carriera, e con la creazione di tensioni interne al mondo universitario, allora sarà stato inutile, perché altri danni e funeste previsioni si profilano sull’orizzonte dell’università e della ricerca.