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" La scuola dovrebbe insegnare l'empatia contro cyberbullismo e odio sul web"

Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft Italia

10/12/2019
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La Stampa

bruno ruffilli
torino
Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft Italia, parla di educazione digitale, quando squilla il telefono. È Giovanni, uno dei due figli, che ha finito i compiti. «Hanno 11 e 14 anni, non sono su nessun social network», assicura. Da madre, impone stretti limiti all'uso dello smartphone: non più di un'ora al giorno, e - come ci si aspetta da chi guida un colosso hi tech - lo fa utilizzando uno strumento tecnologico, il controllo parentale. «Ma - osserva - i colossi del tech dovrebbero fare di più per limitare i pericoli in rete».
È a Torino per un accordo tra Microsoft e Ogr Tech, in cui l'educazione gioca un ruolo importante: «Aiuteremo le startup a diventare più forti tecnologicamente, le inseriremo nel network globale di Microsoft e daremo loro uno spazio nel nostro marketplace dove incontrare altre aziende e vendere i propri servizi. Torino diventerà un hub di innovazione, con corsi e workshop su temi caldi della tecnologia, dal cloud alla cybersicurezza all'intelligenza artificiale», spiega.
Una ricerca recente di McKinsey e AmCham stima in 570 miliardi di euro l'impatto dell'IA in Italia nel 2030, quindi meglio mettersi a studiare.
«È il 23% del fatturato totale delle aziende italiane, in tutti i settori. Ma oggi da noi il tasso di adozione dell'intelligenza artificiale è intorno al 17%, circa la metà del resto d'Europa, e questo soprattutto per scarsità di competenze».
Cosa potrebbe fare la scuola per illustrare le opportunità del digitale, ma anche i suoi lati oscuri?
«Far leva sugli ideali dei giovani, ad esempio l'ambiente: la tecnologia può essere una bacchetta magica per cambiare il mondo. Non serve avere uno smartphone da 1000 euro se lo si usa solo per WhatsApp, bisogna stare attenti a non appiattirsi sul narcisismo e sul culto di modelli imposti dall'esterno. La scuola dovrebbe insegnare l'empatia per combattere fenomeni come il cyberbullismo, educare al rispetto e alla civiltà: i valori del mondo reale valgono anche per il mondo digitale, non c'è differenza. E soprattutto, dovrebbe insegnare a imparare continuamente, stimolare la curiosità e la voglia di crescere anche attraverso la tecnologia».
Non solo coding, insomma?
«I laureati in Italia sono pochi, e ancor meno in discipline scientifiche, mentre ci sono 150 mila posti vacanti nei settori legati all'hi-tech. Per questo, con il programma Ambizione Italia, abbiamo formato mezzo milione di persone, e contiamo di arrivare a 2 milioni entro il 2020. Sono convinta che gli studi umanistici stimolino il lato creativo, tuttavia a un certo punto bisogna avere delle competenze tecniche, sogno il momento in cui corsi di programmazione siano la norma in tutte le facoltà umanistiche. Ma anche questo potrebbe non bastare».
Cosa serve ancora?
«Capacità di problem solving, pensiero critico, attitudine alla collaborazione. Per questo, oltre al curriculum online per giovanissimi sviluppato in collaborazione con Mondo Digitale, abbiamo dei laboratori di quattro ore, dove gli studenti affrontano un problema concreto, studiano e programmano usando anche l'intelligenza artificiale per trovare una soluzione. Al di là del risultato, importa il processo: lavorare in gruppo, analizzare uno scenario, cercare una risposta, capire come usare la tecnologia in maniera creativa».
E i pericoli?
«Dall'inizio dell'anno abbiamo incontrato 200 mila tra studenti e docenti e collaborato con polizia postale e associazioni per spiegare ai ragazzi come comportarsi online. Credo ci sia spazio per fare di più, ma anche i social network dovrebbero assumersi le loro responsabilità, un approccio più incisivo contro hate speech e fake news è possibile».
La tecnologia è un posto per donne?
«In Italia ci sono poche donne in ruoli dirigenziali, ma tutte in aziende tecnologiche. È un settore competitivo e molto meritocratico, quindi offre pari opportunità a pari merito. Il punto è che l'accesso a questo mondo è limitato perché il nostro modello di donna non prevede che si laurei in ingegneria o in fisica. Noi ci proviamo: con Coding Girl abbiamo avviato alla programmazione oltre 10 mila ragazze in sei anni». —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

bruno ruffilli
torino
Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft Italia, parla di educazione digitale, quando squilla il telefono. È Giovanni, uno dei due figli, che ha finito i compiti. «Hanno 11 e 14 anni, non sono su nessun social network», assicura. Da madre, impone stretti limiti all'uso dello smartphone: non più di un'ora al giorno, e - come ci si aspetta da chi guida un colosso hi tech - lo fa utilizzando uno strumento tecnologico, il controllo parentale. «Ma - osserva - i colossi del tech dovrebbero fare di più per limitare i pericoli in rete».
È a Torino per un accordo tra Microsoft e Ogr Tech, in cui l'educazione gioca un ruolo importante: «Aiuteremo le startup a diventare più forti tecnologicamente, le inseriremo nel network globale di Microsoft e daremo loro uno spazio nel nostro marketplace dove incontrare altre aziende e vendere i propri servizi. Torino diventerà un hub di innovazione, con corsi e workshop su temi caldi della tecnologia, dal cloud alla cybersicurezza all'intelligenza artificiale», spiega.
Una ricerca recente di McKinsey e AmCham stima in 570 miliardi di euro l'impatto dell'IA in Italia nel 2030, quindi meglio mettersi a studiare.
«È il 23% del fatturato totale delle aziende italiane, in tutti i settori. Ma oggi da noi il tasso di adozione dell'intelligenza artificiale è intorno al 17%, circa la metà del resto d'Europa, e questo soprattutto per scarsità di competenze».
Cosa potrebbe fare la scuola per illustrare le opportunità del digitale, ma anche i suoi lati oscuri?
«Far leva sugli ideali dei giovani, ad esempio l'ambiente: la tecnologia può essere una bacchetta magica per cambiare il mondo. Non serve avere uno smartphone da 1000 euro se lo si usa solo per WhatsApp, bisogna stare attenti a non appiattirsi sul narcisismo e sul culto di modelli imposti dall'esterno. La scuola dovrebbe insegnare l'empatia per combattere fenomeni come il cyberbullismo, educare al rispetto e alla civiltà: i valori del mondo reale valgono anche per il mondo digitale, non c'è differenza. E soprattutto, dovrebbe insegnare a imparare continuamente, stimolare la curiosità e la voglia di crescere anche attraverso la tecnologia».
Non solo coding, insomma?
«I laureati in Italia sono pochi, e ancor meno in discipline scientifiche, mentre ci sono 150 mila posti vacanti nei settori legati all'hi-tech. Per questo, con il programma Ambizione Italia, abbiamo formato mezzo milione di persone, e contiamo di arrivare a 2 milioni entro il 2020. Sono convinta che gli studi umanistici stimolino il lato creativo, tuttavia a un certo punto bisogna avere delle competenze tecniche, sogno il momento in cui corsi di programmazione siano la norma in tutte le facoltà umanistiche. Ma anche questo potrebbe non bastare».
Cosa serve ancora?
«Capacità di problem solving, pensiero critico, attitudine alla collaborazione. Per questo, oltre al curriculum online per giovanissimi sviluppato in collaborazione con Mondo Digitale, abbiamo dei laboratori di quattro ore, dove gli studenti affrontano un problema concreto, studiano e programmano usando anche l'intelligenza artificiale per trovare una soluzione. Al di là del risultato, importa il processo: lavorare in gruppo, analizzare uno scenario, cercare una risposta, capire come usare la tecnologia in maniera creativa».
E i pericoli?
«Dall'inizio dell'anno abbiamo incontrato 200 mila tra studenti e docenti e collaborato con polizia postale e associazioni per spiegare ai ragazzi come comportarsi online. Credo ci sia spazio per fare di più, ma anche i social network dovrebbero assumersi le loro responsabilità, un approccio più incisivo contro hate speech e fake news è possibile».
La tecnologia è un posto per donne?
«In Italia ci sono poche donne in ruoli dirigenziali, ma tutte in aziende tecnologiche. È un settore competitivo e molto meritocratico, quindi offre pari opportunità a pari merito. Il punto è che l'accesso a questo mondo è limitato perché il nostro modello di donna non prevede che si laurei in ingegneria o in fisica. Noi ci proviamo: con Coding Girl abbiamo avviato alla programmazione oltre 10 mila ragazze in sei anni».