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La sorpresa della scuola Resiste il fortino di sinistra di presidi e insegnanti

Quelli che continuano a votare Pd

12/04/2018
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la Repubblica

Paolo Griseri

Epur ci sono. Ben 6.153.081. La metà dei 12 milioni convinti da Walter Veltroni nel 2008, quando comunque il centrosinistra perse le elezioni.

Chi sono gli italiani che hanno preferito salvare il bambino dall’acqua sporca votando per il Pd e per la sua coalizione il 4 marzo scorso? «Il partito di Renzi ha mantenuto solo una parte dei suoi storici insediamenti nelle cosiddette regioni rosse, in particolare in Toscana» scrivono Matteo Cavallaro, Giovanni Diamanti e Lorenzo Pregliasco nel libro “Una nuova Italia” che analizza l’esito elettorale di un mese e mezzo fa. È curioso che sia franata l’Emilia (a vantaggio dei 5 Stelle) e abbia resistito la Toscana governata da un esponente di Leu, Enrico Rossi. Ma, di fronte alle dimensioni dello smottamento, la distinzione tra Pd e Leu passa decisamente in secondo piano. I resistenti, quelli che hanno ostinatamente fronteggiato il vento contrario scegliendo il partito fino a poche settimane fa al governo, sono ancora tra i pensionati, gli studenti, i dipendenti pubblici. Ma rimangono consistenti, anche se al di sotto della media del Pd, tra i lavoratori autonomi. La novità è che l’insediamento tra i dipendenti pubblici è diventato paragonabile a quello delle altre categorie di lavoratori mentre ancora nel 2013 il successo del Pd tra gli statali era molto superiore alla media. Si è perso un feudo.

Soprattutto, dicono alcuni analisti, per effetto della rivolta degli insegnanti contro il decreto della «Buona scuola». Ma anche in questo caso è molto rischioso generalizzare. In alcuni casi è vero addirittura il contrario.

«È rischiosissimo semplificare perché i giornali e le tv trattano la scuola con grande superficialità», lamenta Marco Rossi-Doria, sottosegretario all’Istruzione con i governi Monti e Letta, uno che ha intitolato orgogliosamente il suo libro: “Di mestiere faccio il maestro”.

Qual è il bambino da salvare nei provvedimenti del Pd sulla scuola? «Il governo Berlusconi aveva tagliato 8,5 miliardi. Un taglio lineare, il più pesante dal 1860. Il governo Renzi, non solo con l’immissione in ruolo di 140 mila precari, ha speso per la scuola 3,5 miliardi». Ma non tutti hanno apprezzato. Molti, anzi, si sono imbufaliti. Certamente tra gli insegnanti. Molto meno tra i presidi. Bisogna chiederlo a Mario Rusconi, figura di riferimento nazionale dell’associazione dei dirigenti di istituto: «Molti tra noi hanno apprezzato il fatto che si valorizzasse la figura del dirigente scolastico, che tutti fossimo soggetti a valutazione: gli studenti da parte degli insegnanti, gli insegnanti da parte dei presidi, gli stessi presidi da parte di commissioni. Era positivo anche il fatto che noi potessimo premiare gli insegnanti meritevoli. Questo ha scatenato il putiferio perché era una strada che contrastava il piattume imperante, quello che poi ha vinto le elezioni sconfiggendo nell’urna la logica del merito».

«Quella che non ha funzionato è stata la comunicazione, ben più del merito dei provvedimenti», dice Rossi-Doria. E racconta «il drammatico errore di aver sollecitato milioni di mail dagli insegnanti su come meglio si sarebbe potuta riformare la scuola, senza poi tenerne conto al momento di scrivere la legge, varata senza alcuna trattativa con il sindacato. Molti tra gli insegnanti lo hanno vissuto come un furto di fiducia». Molti ma non tutti. E sorprendentemente i dati in possesso di YouTrend, l’istituto che ha collaborato con le principali catene tv in occasione delle elezioni, dicono che «tra gli insegnanti il Pd ha perso meno che in altre categorie». Addirittura «il partito di Renzi ha ottenuto nella scuola un risultato in linea con quello nazionale mentre nel 2013 aveva registrato cinque punti di consenso in meno della tendenza generale del partito».

Tra gli insegnanti, il 4 marzo, sarebbero andati meglio della loro media anche Leu e la lista di Emma Bonino, mentre i Cinque stelle sarebbero rimasti al di sotto della performance generale. Tutto è relativo, naturalmente: alla fine conta chi vince e le variazioni relative di questa o quella categoria consolano poco. «Quel che possiamo dire con qualche certezza - dicono a YouTrend - è che non c’è stato il crollo temuto dal Pd nel voto degli insegnanti».

«Forse anche perché - afferma una fonte del ministero dell’istruzione che preferisce l’anonimato - con il governo Gentiloni si sono ricuciti un po’ i rapporti». La tessitrice è stata Valeria Fedeli, una sindacalista chiamata a rimettere insieme i cocci, dopo l’era del decisionismo della coppia Renzi-Giannini. Questo spiega come si è passati dalle grandi manifestazioni contro la “Buona scuola” del 2015-2016 al risultato non drammatico del Pd il 4 marzo scorso. Forse un anno fa tra i titolari delle cattedre il partito di Renzi avrebbe perso di più.

Chi ha apprezzato “Buona scuola” e Jobs act è il mondo della formazione professionale. Dario Odifreddi, presidente di Piazza dei Mestieri, una delle realtà più attive nel settore, non è certo un uomo di sinistra. I suoi riferimenti sono anzi in quella parte del mondo cattolico, Comunione e Liberazione, che per lungo tempo è stata vicina al centrodestra. Ma riconosce che «l’approccio culturale della Buona scuola, l’idea di avvicinare di più l’educazione e il lavoro è largamente condivisibile. Così come i provvedimenti contenuti nel piano di Calenda e Fedeli di spingere la formazione di figure del terziario non accademico, i supertecnici che servono alla nuova industria 4.0». Quel che invece ha frenato l’apprezzamento elettorale, spiega Odifreddi, «è l’applicazione concreta delle leggi. Se l’alternanza scuola-lavoro cade tutta sulle spalle dei presidi, è chiaro che ci sono rischi di fallimento». Così come «si sarebbe dovuta spingere di più la rete dei centri per l’impiego. Se non sono efficienti, è difficile convincere i cittadini che c’è un sistema che li protegge».

Il bambino c’è. Ora di tratta di vedere che cosa ne faranno i prossimi governi. «Il rimpianto dice Rossi-Doria - è che queste riforme avrebbero dovuto essere accompagnate da un grande contratto sociale con insegnanti e mondo della formazione. Non solo per mantenere il consenso ma per far crescere una coscienza collettiva su come si voleva cambiare la scuola». Così, forse, si sarebbe davvero cambiato verso.