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Lauree professionalizzanti al via dal 2018: novità o falsa partenza?

I nuovi corsi triennali per super-periti industriali, chimici, agrari ma anche super-guide turistiche o esperti di cantieri. Un avvio segnato dall’esigenza di non interferire con gli ITS, dai pochi posti (5-600), dalla mancanza di fondi. Il nodo dell’abilitazione

03/12/2017
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Corriere della sera

Gianna Fregonara

Anche l’Italia avrà le lauree professionalizzanti, quei percorsi universitari triennali con almeno un terzo di ore dedicate a tirocini ed esperienze lavorative e di laboratorio, che dovrebbero avvicinare gli studenti (e anche gli Atenei) al mondo del lavoro. Si parte il primo ottobre 2018, i primi corsi saranno una dozzina con cinquanta studenti ciascuno. Un inizio lento e in salita, perché si tratta di una sperimentazione, ma almeno, per dirla con il rettore di Udine Alberto De Toni, «partiamo, altrimenti non arriveremo mai». Certo, almeno a queste condizioni e per ora, non servirà ad aumentare la percentuale di laureati, come ci chiedono Ocse e Unione europea, una percentuale che è ferma al 25 per cento dei giovani.

I confini segnati degli Its

Il decreto che istituiva le lauree professionalizzanti, parte del panorama universitario negli altri Paesi europei, da almeno vent’anni, era stato l’ultimo atto della ministra Giannini, il 12 dicembre dell’anno scorso. Ma al suo arrivo Fedeli aveva bloccato tutto e chiesto una cabina di regia per evitare che le nuove lauree «uccidessero» gli Its, quegli istituti tecnici superiori che ad oggi – con poco più di 10 mila diplomati l’anno – costituiscono l’unica forma di educazione post secondaria alternativa alla laurea tradizionale. Otto mesi di lavoro comune tra Its e conferenza dei rettori hanno portato all’avvio del percorso: gli Atenei potranno istituire queste lauree per le professioni che sono regolate da ordini e dovranno con questi coordinarsi. Così gli Its continueranno a formare meccanici, tecnici ed esperti di officina superspecializzati, mentre le università «sforneranno» super-periti industriali, chimici, esperti di agraria e agrotecnica ma anche super-guide turistiche o esperti di cantieri e scavi archeologici.

Meccatronica a Bologna, geometri a Udine

A ottobre Bologna e Federico II di Napoli partiranno con un corso di meccatronica (super-periti industriali), Udine con tecnica edilizia (così si chiama la laurea per i geometri) e Bolzano con un corso in ambito agroalimentare. Potenzialmente il bacino degli studenti è molto ampio: tutti coloro che decidono di non proseguire i studi, e sono la metà dei diplomati soprattutto negli istituti tecnici, tutti coloro che vogliono iscriversi ad un albo - per i periti industriali dal 2021 la laurea sarà obbligatoria - e infine per quanti cercano un percorso più «pratico» rispetto alla laurea tradizionale. Il ritardo dell’Italia è dovuto a diversi fattori, non ultimi i dubbi dentro il sistema universitario di svilire – con questi percorsi - la laurea o di finire per usare i fondi, più che per la specializzazione e la ricerca, per titoli che potrebbero risultare accademicamente non ineccepibili.

Il nodo del titolo non (ancora) abilitante

L’inizio della sperimentazione a ottobre dell’anno prossimo è però in salita. Intanto i posti non saranno più d 500-600, perché è previsto che le Università potranno aprire un nuovo corso ogni anno accademico e quindi nel 2018 solo uno e gli Atenei pronti non sono tanti. I corsi sono a numero chiuso perché servono laboratori e posti sicuri per i tirocini degli ultimi due anni. Per ora il titolo non è abilitante, cioè non vale come esame per l’ordine, come hanno subito messo in evidenza gli studenti. «Da qui a ottobre le Università faranno degli accordi con gli ordini perché l’esame finale sia abilitante», assicura il rettore De Toni. «Poi il prossimo Parlamento farà una legge per rendere abilitante il titolo per tutti», promette il sottosegretario Gabriele Toccafondi che ha seguito la trattativa di questo ultimo anno. Infine i fondi: per aprire i nuovi corsi che hanno 60 crediti da prendere sul campo con esperienze in aziende, ci saranno anche «professori» che vengono dall’esterno dell’Università, dal mondo delle imprese, ma non nuovi finanziamenti, un dettaglio che rischia di mettere il piombo nelle ali al nuovo settore. «Ci vorranno almeno dieci anni – prevede De Toni - ma poi chissà forse anche noi potremo avere le nostre Fachhochschule come quelle tedesche».