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Le porte chiuse dell'Università

Domenico De Masi

09/09/2017
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la Repubblica

Diciamolo chiaro: in questi giorni è in atto un vero e proprio genocidio generazionale che poi si traduce in suicidio nazionale. È sorprendente che migliaia di giovani si sobbarchino supinamente a questa mattanza. È indecente che le loro famiglie assistano inerti alla decimazione dei loro figli. È criminale che i responsabili della politica scolastica abbiano dolosamente orchestrato, con le loro azioni e con le loro omissioni, questo scempio.

Centinaia di migliaia di giovani, in tutta Italia, stanno tentando di entrare nell’università per dedicare alla loro professionalizzazione gli anni migliori della loro vita. Sanno che si tratta di un’università sgangherata, dove troveranno professori scarsi e demotivati, aule e laboratori insufficienti, servizi improbabili. Se avessero i genitori ricchi se ne andrebbero a studiare in Inghilterra o in America, ma sono costretti ad accontentarsi di questa istituzione sbilenca dove si arriva dopo un esame di maturità disciplinato da 59 atti normativi e ci si trova di fronte allo sbarramento del numero chiuso.

Enrico Moretti, docente di Economia a Berkeley, ha dimostrato con dovizia di dati che “la scolarità è divenuta la nuova discriminante sociale, a livello sia individuale sia di comunità” e che dal numero dei laureati dipende il destino economico delle città sia americane che europee. Le aree con più abitanti laureati hanno maggiore occupazione, stipendi più alti, minore criminalità, meno divorzi, vita culturale più intensa, migliore qualità della vita. Negli Stati Uniti le aree metropolitane più ricche e avanzate (come Boston e San Jose) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra il 50 e il 60%; le aree metropolitane più povere e arretrate (come Merced e Yuma) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra l’11 e il 13%.

In Italia la percentuale di laureati è del 29% (contro il 38% del resto d’Europa) se si considerano le lauree triennali e dell’11,6% se si considerano le lauree magistrali. Dunque è pari a quella delle due aree metropolitane più disastrate d’America. La nostra percentuale d’iscritti all’Università sul numero di giovani in età universitaria (19-25 anni) è pari al 34,4% tra i maschi e al 40,8% del totale. Nella Corea del Sud la percentuale è del 98%; negli Stati Uniti e in Spagna supera l’80%.
Dunque, per correre ai ripari, occorrerebbe incoraggiare quanti più giovani possibile a iscriversi all’università. La Germania, che pure ha una percentuale d’iscritti più che doppia rispetto alla nostra, ha adottato una serie di incentivi per indurre i diplomati a proseguire gli studi: ha eliminato le tasse del primo triennio e ha accolto molti emigranti diplomati.

Noi, invece, nonostante la percentuale ridicola di studenti universitari, invece di imitare la Germania, invece di aumentare le strutture e moltiplicare gli insegnanti, abbiamo messo in atto, contemporaneamente, tre azioni demenziali: l’adozione del numero chiuso; il blocco del turnover dei professori per cui, negli ultimi 8 anni, il corpo docente si è ridotto del 20%; il taglio delle già modeste spese per l’istruzione, che ora impegnano appena il 4% del Pil (la metà della Germania e un terzo della Svezia) relegandoci a un vergognoso 25° posto tra i 28 paesi europei.

Oggi la Campania ha 186.823 studenti e 5.591 docenti pari a 33 studenti per ogni docente: si tenga conto che al Mit di Boston vi è un professore ogni otto studenti e nelle università di Pechino vi è un professore ogni due studenti. A Napoli solo il conservatorio San Pietro a Majella ha un docente per ogni 7 studenti; la Federico II ha un docente per ogni 32 studenti; l’Università di Salerno ha un docente ogni 37 studenti. Lo scorso anno la selezione degli studenti all’ingresso negò l’accesso nell’università a un prezioso capitale umano di giovani campani. Alla facoltà di Biotecnologie per la salute della Federico II i candidati furono 1.384 e i posti 375. Nelle tre facoltà di Medicina i candidati furono 7.276 e i posti 1.008. Per Medicina in lingua inglese i candidati furono 300 e i posti 25. Per Chimica e tecnologie farmaceutiche i candidati furono 1.117 e i posti 250. Non stiamo parlando di Lettere o Giurisprudenza; stiamo parlando di facoltà scientifiche di cui si sente continuamente invocare la necessità. Quest’anno il calvario si ripete: per Medicina concorrono 6.400 candidati ma i posti sono solo 850. Praticamente 5.550 giovani campani, disposti a dedicare una diecina d’anni allo studio di una materia impegnativa economicamente e intellettualmente, sono esclusi in partenza e andranno a gonfiare il numero già esorbitante dei Neet (Not engaged in education, employment or training).

Lo scorso anno il rettore della Federico II, Gaetano Manfredi, commentò i dati dicendo: "Limitare l’ingresso ai corsi di laurea significa garantire agli studenti la qualità della formazione e i servizi". In altri termini, invece di adeguare le strutture carenti alla quantità potenziale degli studenti, si preferisce ridurre il numero delle matricole castrando così ogni possibilità di sviluppo per l’università e per il Paese. Ma la nostra Costituzione democratica non consente di assicurare ad alcuni una buona qualità della formazione e dei servizi negandola agli altri. Tanto più che, da quando è stato introdotto questo scellerato numero chiuso, la formazione e i servizi offerti dall’università non sono affatto migliorati. La Costituzione assicura un’ottima qualità della formazione alla maggiore quantità di giovani. I soldi ci sono: basterebbero quelli sprecati per il Jobs Act e quelli dissipati per gli 80 euro a pioggia.

L’unica novità di questi giorni riguarda i professori. L’ultima volta che avevano scioperato era il 1973 ma ora, dopo 44 anni di letargo, quasi a tumulazione avvenuta, si sono accorti che li stanno decimando e, con un sussulto di dignità, alcuni atenei hanno dichiarato sciopero. Vi hanno aderito solo 5.444 docenti, pari al 13% di tutto il corpo accademico. Ma è già consolante constatare che in una turba di disorientati, solo il 77% ha optato per l’eutanasia.