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Ma la campanella ci salverà

Valeria Parrella

14/09/2020
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la Repubblica

Siccome la scuola pubblica italiana, con la sua universalità e la sua frequenza obbligatoria, è la più alta disposizione democratica della nostra Repubblica, appena viene trascurata o depauperata ci torna addosso in tutta la violenza che le è stata inferta. Perché fare male alla scuola è come fare male a noi stessi e se ci prendiamo un piede a randellate certo possiamo continuare a marciare per un po’ ma poi alla prima rampa di scale ci fermiamo. La rampa di scale è arrivata, è il Covid, e settembre pure è arrivato e domani molti, tra dieci giorni tutti, la dovremo salire.

Quando dico tutti, intendo proprio tutti, anche chi non ha figli, non insegna e il diploma se l’è preso da un pezzo, perché la scuola non è mai altro da noi, non è i suoi insegnanti, o i suoi alunni o i suoi edifici, bensì è l’insieme di tutte queste cose, è la società stessa che si muove e si determina, e il grado di ansia e paura che assilla in questi giorni la società dipende in gran parte dal fatto che ci siamo resi conto, davanti a questa rampa di scale, che stavamo camminando su un piede malato, randellato da politiche terribili, di destra e di sinistra. Quando timidamente a inizio settembre nella chat delle mie amiche passavano le prime foto di soluzioni di banchi monoposto, o di bambini cubani disposti a ELLE, la maestra Caterina ce ne illustrava tutto il limite e ogni criticità solo guardando la foto, mostrandoci che se dalla chiusura son passati cinque sei mesi, ebbene non bastano a porvi rimedio, no: ci vorrebbero cinque sei anni ma di politiche giuste, illuminate e non ragionieristiche e verticistiche. Che i banchi senza o con le rotelle sono solo stupidaggini servite a mascherare i problemi veri: strutture inadeguate, classi pollaio, personale non sufficiente, modalità di reclutamento schizofreniche, uso strumentale della scuola a fini personali o politici, incompetenza di chi legifera e decide. E poi ci rassicurava, tutti: però vedrete che ancora una volta se ne usciremo indenni, o quasi indenni, sarà la dimostrazione che avremo retto nonostante tutto. E io e la maestra Caterina, compagne di banco, noi sì, dagli anni ’80 di un Meridione antico, lo sappiamo bene: per esser scappate assieme da quegli istituti non antisismici durante le scosse di terremoto, ed esservi tornate a studiare poi nelle aule senza termosifoni e di pomeriggio, con i doppi turni.

Sappiamo che nonostante tutto la scuola salva. Salva dalla solitudine e dall’ignoranza, dalla fame e dalla violenza. Più di tutto, se la comunità è consapevole, salva dalla disuguaglianza. Pure quando non funziona, quando bisogna far ricorsi per vedersi assegnare gli insegnanti di sostegno, quando bisogna far collette per mandare un ragazzino che non ha mezzi al campo scuola con gli altri, pure quando la mensa ritarda o fa schifo. Ci adatteremo. I ragazzi urleranno dietro le mascherine o resteranno muti, le prime classi avranno un poco più paura ad andare dove non sanno con regole così complicate, per corridoi nuovi e volti necessariamente a metà. Nella festosa dotazione di inizio anno accanto a un diario fuxia comparirà un termoscanner. Ma finalmente ci sarà qualcuno più grande di noi, della nostra casa e della nostra famiglia e del nostro giro di amici che racconterà, in un grandissimo casino corale a dieci milioni di voci, come si fa la vita, come si attraversa una pandemia, come si sta ancora una volta tutti insieme nel mondo: tutti insieme cioè forti perché insieme e lontani dai rischi solitarii dell’ego. Tutti insieme.