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Manifesto: «Vogliono solo voci autorizzate È la democrazia per greggi»

INTERVISTA Zagrebelsky: ma è un gesto che esprime debolezza

08/12/2009
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il manifesto

Daniela Preziosi

«Il vero volto di un governo e di una maggioranza lo si capisce non nei proclami, ma nelle scelte concrete che riguardano le priorità. Evidentemente, il pluralismo dell'informazione, le voci che non dipendono da editori che hanno interessi in mille altre cose, non sono precisamente al centro dei pensieri di questo governo».

Usa un eufemismo per descrivere la situazione, il professore Gustavo Zagrebelsky, già giudice della Corte Costituzionale e prestigioso nome dell'associazione "Libertà e Giustizia". Con altri intellettuali di rango, nello scorso febbraio ha promosso un appello contro il declino della cultura democratica nel paese (si intitolava «Rompiamo il silenzio») che ha raccolto oltre 200mila firme. In questo anno, la tendenza non è cambiata. Gli chiediamo - ma, rivolta a lui, suona come una domanda retorica - se la cancellazione di fatto di molte testate, alcune delle quali - come il manifesto - partigianissime ma indipendenti, non sia un nuovo ulteriore aspetto di questa decadenza.
Berlusconi non teme di stupire. Cancella di fatto un gruppo di quotidiani in cooperativa e di partito, nonostante il suo conclamato conflitto di interessi sia un caso di interesse internazionale.
È il contrario: la sua scelta è una conseguenza del conflitto di interessi. Chi ci governa ritiene che l'informazione necessaria e sufficiente sia quella che proviene dai soggetti "autorizzati".
Altro aspetto sorprendente, la scelta del governo cade il giorno dopo la grande manifestazione del popolo «viola», che ha chiesto legalità e pluralismo. Una coincidenza?
I tempi della finanziaria sono questi, e prescindono dalle manifestazioni. Direi piuttosto che questa scelta ha a che vedere con una concezione generale della vita in comune: non c'è bisogno di pluralismo. Ed è conforme a una certa idea di democrazia per grandi numeri omologati: per greggi, insomma. La democrazia di massa deve fermarsi a una somma di soggetti aggregati, non soggetti pensanti.
Questo succede proprio mentre il governo non gode di buona salute. Fini si smarca, il Pdl divide, c'è un continuo ricorso al voto di fiducia. Come si spiega?
L'eccesso di ricorso alla fiducia non è difetto solo di questo governo. E sulla finanziaria non è una novità. C'è da temere che venga posta anche sul processo breve: lì toccheremmo il fondo. Comunque è in atto un fenomeno preciso, lo si potrebbe spiegare citando la formula latina «motus in fine velocior». Quando si intravede il rischio della fine si diventa più accaniti. O, meglio, nel momento di debolezza si fa mostra della maggior determinazione.
Lei crede che il governo stia arrivando alla fine?
Non posso saperlo, non sono un profeta. Ma non c'è dubbio che mai come ora ci sia una forte tensione dentro la maggioranza e intorno al governo. Ma motus in fine velocior è una legge della storia. Quando un governo è sicuro di sé, e forte, può fare gesti di magnanimità, tolleranza, apertura. Qui siamo agli antipodi.
L'Economist ha scritto «Berlusconi dimettiti». Il Financial Times scrive: «Non può governare». Ma da noi sono in pochi a chiedere le dimissioni del presidente. Come se lo spiega?
Non credo che fuori dal paese sappiano qualcosa più di noi. È che forse lì ragionano con categorie diverse dalle nostre.
Questo riguarda il governo ma anche l'opposizione. Nessun partito di opposizione, almeno parlamentare, chiede le dimissioni di Berlusconi.
Per chiedere le dimissioni bisognerebbe essere in un sistema politico che funziona. Uno dei drammi del nostro paese è che dopo l'eventuale fine del governo non sappiamo cosa c'è. La fine di questa maggioranza farà cadere nel caos il centrodestra, dove si scateneranno i potenziali successori. Ma nel versante opposto non si vede un'alternativa chiara. Il nostro è un sistema in decomposizione da tutti i lati. Il corteo di sabato è stata una sana manifestazione di dissenso, di ripulsa per lo stato in cui siamo piombati. Ma il guaio è che al 'dopo' la politica dovrebbe saper dare una risposta. Ma questa risposta, al momento, non sembra neanche all'orizzonte.