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Michael e Peter, la scuola preziosa come acqua e cibo

Bidi Bidi e altri campi profughi popolati da minori capifamiglia

14/05/2019
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Corriere della sera

Michele Farina

Michael e Peter hanno 14 e 16 anni: eppure sono i capifamiglia, i punti di riferimento e di conforto per i fratellini più piccoli. Le loro storie si specchiano nei volti di 420 milioni di minori che oggi vivono in aree di conflitto o ne portano i segni, le cicatrici: Michael e Peter sono fuggiti a piedi dalla guerra in Sud Sudan, due gocce nel fiume di centinaia di migliaia di persone che negli ultimi anni hanno trovato rifugio a sud, oltre il confine con l’Uganda.

In tanti sono morti sulla strada, per la fame, le violenze. Ora, dal più giovane Paese del mondo, dopo 100 mila morti arrivano timidi segnali di non-guerra, ma la situazione è ancora troppo critica per pensare a un ritorno. Ci sono milioni di sfollati interni. Michael, Peter e i due fratelli non saprebbero nemmeno come e dove tornare: non hanno genitori che li aspettano. E in Uganda questa famiglia fatta di minori ha trovato una ricchezza che i ragazzi considerano la più preziosa assieme a cibo e acqua: la scuola.

Arcipelago di vita e bisogni: costruire una città sulle cicatrici

di gente

in fuga è qualcosa

di epico

Mentre si avvicina da noi il tempo delle pagelle, fa impressione, non solo in Africa, vedere quanto la scuola continui a essere un sogno per milioni di aspiranti studenti. La famiglia di Michael e Peter rientra nel progetto di Save the Children che ha come obiettivo far studiare i piccoli sud-sudanesi che hanno trovato rifugio nei tanti campi di accoglienza nell’accogliente Uganda, che un ambasciatore della Ue a Kampala ha definito «la Germania d’Africa» per il modo di affrontare la questione migranti. Un milione di persone hanno passato il confine verso sud: le emergenze sono tante, le persone tantissime. Almeno il 57% dei bambini nei campi non va a scuola e il 5% non ha accanto né mamma né papà. Piccoli capifamiglia crescono (e studiano): l’intervento sostenuto dai fondi raccolti con la campagna sms in Italia si focalizzerà sui piccoli tra i 3 e i 6 anni, e prevede tra l’altro la riqualificazione di 36 centri e la formazione di 250 insegnanti.

I campi profughi nel Nord dell’Uganda stanno diventando vere città. Bidi Bidi è il secondo agglomerato di rifugiati più grande del mondo, secondo soltanto a quello dei Rohingya in Bangladesh. Si estende su uno spazio più grande di Parigi: fino all’estate 2016 era savana e foresta. Il Corrierel’ha visto crescere un paio d’anni fa. Ora le torri dell’acqua e i ripetitori dei cellulari compongono quella che il National Geographic definisce una «skyline industriale», tra capanne di fango e micro appezzamenti agricoli, mercati e campi da gioco. Diversamente da altri Paesi, l’Uganda permette ai rifugiati di lavorare, coltivare la terra. «Anche Venezia nel Quinto Secolo è nata da un’onda di rifugiati scappati dalle guerre sulla terraferma», scrive il giornale americano. Bidi Bidi e i campi intorno (Rinoceronte, Imvepi) sono un arcipelago brulicante di vita e di bisogni. Inevitabilmente è un lavoro di équipe che coinvolge anche diverse ong, da Oxfam a Medici senza frontiere. Costruire una città come nelle epopee di tante frontiere, sulle cicatrici di gente in fuga, è qualcosa di straordinario. Nei campi c’è un campionario di anziani soli, madri con figli piccoli, famiglie fatte di minori come quella di Michael e Peter. A Bidi Bidi un giovane profugo sud-sudanese fece da guida al Corriere sotto il sole feroce. Cosmas Malish, 29 anni, lavorava con Save the Children, la pettorina rossa e la voglia di raccontare di un perito informatico costretto a scappare dai miliziani che avevano ucciso suo padre a Maridi. Cosmas ci aiutò a parlare con il piccolo Robert Elisha, 10 anni, uno dei tanti minori non accompagnati. Indossava timidamente un paio di fuseaux troppo grandi, da bambina, con i cuoricini (che la sorella sedicenne gli aveva passato). Come vorremmo saperlo a scuola ora, orgoglioso, in mezzo a quella incredibile città di frontiera.