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Non è una scuola per maschi

Voti più bassi, più bocciature, più abbandoni scolastici. Ma anche se le ragazze vanno meglio a scuola e all’università, i ragazzi recuperano terreno sul lavoro. Con il paradosso che i posti di potere sono occupati da maschi con bassi livelli d’istruzione

28/12/2018
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Corriere della sera

Gianna Fregonara e Orsola Riva

E se quella italiana non fosse una scuola per maschi? Può sembrare una domanda provocatoria in un Paese dove le ragazze ancora faticano nelle materie scientifiche più di tutte le loro coetanee e 8 iscritti a Ingegneria su 10 sono uomini. Ma non lo è: in generale, a scuola i ragazzi vanno molto peggio delle loro compagne. Voti più bassi, più bocciature e, soprattutto, più abbandoni. Come se la scuola, quella superiore in particolare, non riuscisse a riconoscere e a sviluppare i talenti dei maschi.

Se i ragazzi vanno peggio anche in matematica

Partiamo dalla famigerata matematica. Le ragazze italiane escono in genere con le ossa rotte dai test come l’Ocse-Pisa. Ma nelle pagelle scolastiche è un’altra storia: al primo anno di liceo quasi 2 ragazzi su 10 sono insufficienti, mentre le loro compagne arrivano in massa (86,4%) alla sufficienza. In italiano — i dati del ministero dell’Istruzione e i test Invalsi lo confermano — lo svantaggio dei ragazzi è storicamente molto più marcato, soprattutto negli istituti tecnici e professionali, dove quelli che non raggiungono la sufficienza sono quasi il doppio delle loro compagne. Al contrario i voti alti, dall’8 in su, vanno molto più spesso alle studentesse sia in italiano (65 contro 35) che in matematica (60 a 40). Alla fine del percorso le ragazze che escono con il massimo dei voti sono quasi l’8% contro il 5% dei maschi.

L’età (critica) dello sviluppo

Gli anni critici, come dimostra il rapporto Ocse sul gender gap nell’Educazione del 2018, sono quelli tra i 10 e i 15 anni. Le difficoltà adolescenziali tendono generalmente a ridursi fino a scomparire intorno ai 21-22 anni, ma prima è un disastro. È così dagli anni Ottanta: sono stati i «ragazzi del ’66» i primi a cedere il passo alle coetanee e da allora la performance scolastica dei maschi ha continuato a peggiorare. Secondo Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia alla Bicocca di Milano, la situazione potrebbe migliorare riformando i cicli: ci vorrebbe una scuola della preadolescenza di 5 anni — i tre delle medie più il primo biennio delle superiori — in modo che i ragazzi possano essere seguiti con continuità in quella delicata fase di sviluppo. «Biologicamente le ragazze maturano prima. È sempre stato così — spiga Mantegazza — ma ultimamente c’è stata un’accelerazione. Ogni tanto in classe sarebbe utile separarli: come si fa a pensare che A Silvia di Leopardi comunichi le stesse cose a una tredicenne e a un suo compagno? Basterebbe un’ora di lavoro in gruppi divisi per genere per poi tornare a confrontarsi. Purtroppo però il sistema è strutturato sul moloch della classe».

La femminilizzazione della scuola

All’esame di terza media, dove vengono promossi praticamente tutti (99,8%), quasi il 30% dei maschi viene «licenziato» con il 6, la soglia minima. Ma molti di coloro che escono dalle medie con una sufficienza risicata hanno il cammino segnato: spesso scelgono di parcheggiarsi in un istituto professionale. Dopo una bocciatura e magari un’altra ancora, una parte di questi ragazzi finisce per non andare più a scuola. Non a caso il tasso di dispersione scolastica è molto più alto fra i maschi che fra le femmine (16,6% per cento contro l’11,2). Siamo uno dei pochissimi Paesi europei, con la Spagna, in cui ci sono più diplomate che diplomati. Lo squilibrio cresce ancora all’università: leggendo i dati Istat 2018 (fascia 30-34 anni), più di una ragazza su 3 raggiunge il traguardo della laurea mentre nel caso dei ragazzi solo uno su 5 ce la fa. «Fin dalle elementari — dice il pedagogista Daniele Novara — i maschi collezionano più note e prendono voti più bassi. Per non parlare delle certificazioni neuropsichiatriche come l’iperattività o il disturbo della condotta, che nei bambini sono addirittura il doppio che nelle bambine». Novara ha un’idea chiara: «Maestre e professoresse, stragrande maggioranza del corpo docente, tendono a proiettare inconsapevolmente sugli alunni l’immagine negativa del discolo, del maschio terribile, e costringono le femmine nel ruolo di brave bambine».

Mancanza di modelli maschili

Il problema non è solo italiano ma interessa anche gli altri sistemi scolastici europei, con rare eccezioni. Nella letteratura scientifica non italiana diversi studi si concentrano sugli effetti della femminilizzazione della scuola: «La penuria di professori maschi — spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli — resta un tema irrisolto. I ragazzi non riescono a trovare un modello di ruolo in classe proprio nel momento in cui ne avrebbero più bisogno». Spesso il disagio scolastico dei maschi si intreccia con il livello economico-sociale delle famiglie. Nei contesti più svantaggiati, gli adolescenti tendono a modellare i loro valori più per strada che in classe o, peggio ancora, stando incollati ai reality tv e ai video degli youtuber. «Non è colpa della scuola — dice Mantegazza — se la nostra società sta attraversando una fase di crisi dell’identità maschile. Ma se ci fossero più docenti uomini sarebbe più facile veicolare il messaggio che esistono modelli maschili alternativi a Fabrizio Corona. E che la cultura può servire per sublimare la propria virilità».

Le didattiche differenziate che mancano

«Differenziare le didattiche potrebbe essere un buon esperimento», aggiunge Gavosto, usando metodologie meno accademiche e più pratiche per i ragazzi e ripensando quelle per le ragazze soprattutto per la matematica: il fatto che «il nostro sistema scolastico non riesca a coinvolgere le ragazze nelle materie scientifiche resta una priorità da risolvere». È come se, in classe ma prima già in famiglia, si saldassero due pregiudizi complementari. A parità di brutti voti, il pregiudizio gioca contro i maschi «che nell’adolescenza si rivelano più ribelli delle ragazze verso il sistema». Ma se fioccano 9 e 10, «il figlio viene considerato di talento, la figlia solo molto studiosa». Anche la scelta del tipo di scuola ha un peso: i ragazzi tendono a indirizzarsi più facilmente verso istituti tecnici e professionali dove il tasso di dispersione è più alto che nei licei a maggioranza femminile. «Solo quando entrano nel mondo del lavoro, la pressione sociale su di loro è tale che è come se li obbligasse a maturare», continua Gavosto. La stessa pressione, invece, penalizza le ragazze.

Potere senza tasso d’istruzione

Gli esperti internazionali si stanno interrogando sul perché il gap di genere tenda a scomparire nelle rilevazioni tra gli adulti: se si incrociano i risultati del Pisa (dei quindicenni) con quelli del Piaac (che misura le competenze degli adulti) lo svantaggio dei ragazzi nella lettura tenda a ridursi fra i 16 e i 29 anni, per annullarsi del tutto fra i 30-40enni che lavorano. Non è escluso che le modalità con cui vengono effettuati i test possano in parte influenzare i risultati: i ragazzi della seconda superiore tendono a prendere un po’ sottogamba le prove standardizzate fatte a scuola mentre potrebbero essere più attenti nelle rilevazioni sugli adulti quando il test è più personale, svolto one-to-one, e loro più maturi e consapevoli. Nel frattempo, soprattutto in Italia, molti di questi giovani smettono di studiare precludendosi la laurea. «Con un effetto drammatico per l’intera società — chiosa Novara — perché i posti di potere vengono occupati da giovani con un basso livello d’istruzione, mentre le ragazze che pure sono più istruite di loro tendono a perdersi per strada».