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Più scuola per i ragazzi del nostro Mezzogiorno

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

16/07/2018
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Corriere della sera

Q uesto articolo è rivolto alle ragazze e ai ragazzi italiani che vanno ancora a scuola, soprattutto a quelli che abitano nelle città del Mezzogiorno.

Il punto di partenza è il medesimo che ha sollevato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 7 luglio scorso. Le generazioni che vi hanno preceduto, i vostri genitori e i vostri nonni, vi trasmettono un’Italia che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto passi straordinari, trasformandosi da un Paese sostanzialmente agricolo, e quindi povero, in uno dei più ricchi al mondo. Purtroppo questo miracolo da 20 o 30 anni si è arenato. Mentre era diventato normale aspettarsi una vita migliore di quella dei propri genitori, oggi non è più così. Paesi simili al nostro ormai crescono più di noi. La Spagna, che quarant’anni fa era molto più povera di noi e oppressa dalla dittatura franchista, oggi ci ha superato in termini di reddito pro capite. L’Irlanda nel 1980 era più povera di noi di circa un 30 per cento, la popolazione emigrava e il Paese pareva destinato al declino più buio. Con un colpo di reni straordinario oggi ha un reddito pro capite che è più del doppio del nostro. Per non parlare dei Paesi nordici e della Germania, rasa al suolo alla fine della guerra e oggi molto più ricca di noi! Molte ragazze e ragazzi che hanno solo qualche anno più di voi scelgono di lasciare l’Italia per fare i camerieri a Londra o gli autisti di Uber a Parigi e cercare di costruirsi una vita in quelle città.

M olti ci riescono. Tanti giovani ricercatori se ne vanno negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia, Svizzera, ma anche a Singapore.

Galli della Loggia vi invita, giustamente, a prendere in mano il vostro futuro. Ha ragione, ma per farlo dovete averne gli strumenti, a cominciare da pari opportunità per tutti, non vantaggi ingiusti per i più ricchi, i più fortunati e per chi vive nelle città del Nord. Questo è il compito, forse l’ultimo, della generazione che vi precede e che finora non vi è riuscita.

Le prospettive di chi nasce nel Mezzogiorno sono peggiori di chi ha avuto la fortuna di nascere al Nord. Questa è quella che da 160 anni, cioè dall’Unità d’Italia, si chiama la «questione meridionale» sulla quale si sono scritte migliaia di pagine, da Benedetto Croce a Gaetano Salvemini, a Edward Banfield e Robert Putnam, solo per citare i più conosciuti. Non siamo certo noi a scoprirla.

Una delle cause, forse la principale, della differenza fra la situazione dei ragazzi del Mezzogiorno e quella dei loro coetanei al Nord o nel resto d’Europa è la scuola. Basterebbe rileggere gli articoli che scriveva un secolo fa Salvemini. Le statistiche raccolte dall’Ocse (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sulle competenze degli studenti quindicenni documentano un divario molto ampio fra la qualità delle scuole del Nord e di quelle del Mezzogiorno. Prendiamo ad esempio i risultati dei test che misurano l’abilità di un quindicenne di leggere e comprendere un testo. L’ultima indagine disponibile, che risale a tre anni fa, mostra che la differenza fra le scuole del Nordest (i cui risultati sono simili a quelli dei paesi migliori analizzati dall’Ocse) e quelle del Mezzogiorno è del 12 per cento. Il divario sale al 14 per cento per le competenze nelle scienze. Non lasciatevi ingannare da numeri che possono sembrare relativamente piccoli: è come se, a parità di apprendimento, i ragazzi del Sud andassero a scuola due anni meno di quelli del Nord. Come se uno studente di terza media del Sud avesse la stessa preparazione di uno di prima media al Nord. Non è colpa dei ragazzi del Sud ma di una scuola che non funziona e li fa partire svantaggiati rispetto ai loro coetanei nati al Nord o altrove in Europa. Certo, ci sono eccezioni straordinarie. Tre fra le giovani economiste di maggior successo al mondo, Oriana Bandiera, Paola Sapienza e Paola Giuliano, che oggi insegnano a Londra, Chicago e Los Angeles, si sono formate al liceo classico di Siracusa. Ma questo purtroppo non è vero per la maggioranza.

Il nuovo governo vuole aiutare il Sud con più sussidi. Abbiamo cercato di farlo per 150 anni: il risultato è che, dall’unificazione a oggi, il divario nel reddito pro capite tra Nord e Sud anziché chiudersi si è allargato (si vedano a questo proposito i calcoli pubblicati da due professori dell’università di Catanzaro, Vittorio Daniele e Paolo Malanima, sulla Rivista di Politica Economica nel 2007). I sussidi non risolvono nulla. Certo, un sussidio di disoccupazione tra un lavoro e l’altro è necessario, ma non aiuta a trovarlo. Anzi, spesso, se il sussidio è disegnato male, come lo è il reddito di cittadinanza, almeno nelle proposte viste sinora, può addirittura scoraggiare a trovare un lavoro e facilitare il lavoro in nero. Per creare occupazione al Sud occorre indurre le imprese, soprattutto quelle più produttive, che pagano salari più alti, ad aprire impianti nel Mezzogiorno. Per farlo ci vogliono lavoratori preparati, meno criminalità e più «capitale sociale», cioè una società che funzioni meglio. Qui ci occupiamo della scuola, dove, secondo noi, ci vuole una vera rivoluzione.

La «casa» dei giovani

Primo, la scuola deve essere la «casa» di voi ragazzi. Non deve chiudere, nei giorni di lezione, alle 14 e poi andare in vacanza dall’8 giugno all’8 settembre. Nei giorni di scuola deve rimanere aperta fino alle 18 e le vacanze estive devono essere molto più brevi, un mese, sei settimane al massimo. Le famiglie più ricche hanno molti modi per tenere occupati i figli durante le lunghe vacanze: seconde case, baby sitter per i più piccoli, corsi all’estero per imparare una lingua. Le famiglie meno abbienti no. Non dobbiamo stupirci quindi se ragazzi lasciati tanto a lungo con nulla da fare sono attratti dalla criminalità, molto abile a reclutare ragazzi delusi dalla scuola e annoiati.

In molti luoghi, per la verità più a Milano che in Calabria, sono le parrocchie a fare supplenza il pomeriggio e durante le vacanze: che questo aiuto sia benvenuto! Ma lo Stato non può abdicare e affidarsi alla Chiesa cattolica. Uno Stato laico non può obbligare i ragazzi ad andare in parrocchia, ma può richiedere che stiano a scuola e tenerla aperta. Quindi scuole aperte molto più a lungo. Questo ovviamente richiede un’integrazione di stipendio per gli insegnanti del Sud. Saranno fondi ben spesi, anche tenendo conto che la vita al Sud costa meno che al Nord, e a patto di controllare il loro lavoro e di retribuire meglio gli insegnanti che più si impegnano.

Secondo, la qualità e la sicurezza degli edifici scolastici. L’immagine e la fiducia che un ragazzo sviluppa verso lo Stato dipendono anche dalla qualità dei servizi che lo Stato gli offre. Una scuola sporca o fatiscente non lo invoglia a diventare un buon cittadino. Nel Mezzogiorno ci sono circa 18.000 edifici scolastici. Spendere, in media, un milione per edificio per rinnovarli costerebbe la metà del denaro che serve per introdurre un reddito di cittadinanza nella forma auspicata dal contratto di governo (secondo la stima del presidente dell’Inps, Tito Boeri). Con quei soldi, quasi 40 miliardi, si possono sistemare le scuole e anche compensare gli insegnanti per il maggior impegno che viene loro richiesto. E probabilmente basterebbe meno.

Siamo in Italia e, come è accaduto con i terremoti, imprenditori edili scorretti, in particolare quelli legati alla criminalità organizzata, festeggerebbero questa proposta prevedendo di arricchirsi aggiustando le scuole con la sabbia. I lavori devono essere affidati alla Banca europea per gli investimenti (Bei), la quale, oltre a far svolgere la riparazione delle scuole del Sud anche a qualche impresa danese, potrebbe (almeno in parte) finanziare questi interventi con fondi europei. Il problema dell’adeguamento degli edifici scolastici è più grave in Italia che altrove in Europa, ma anche altri Paesi europei hanno problemi analoghi. Invece di chiedere astrattamente di escludere gli investimenti dal calcolo del deficit, come ripete il ministro Tria — per sentirsi rispondere che l’Europa, giustamente, non si fida — proponiamo un grande progetto europeo per gli edifici scolastici affi-dato alla Bei. Se questo fosse possibile non solo nel Mezzogiorno ma anche nelle zone meno ricche del Nord, se non dovunque, tanto meglio! Ma l’urgenza oggi è in primo luogo al Sud. L’Italia non si riprende se abbandona quasi una metà dei suoi ragazzi in condizioni di partenza tanto svantaggiate.

L’esempio di Harlem

Gli esempi di investimenti nella scuola che hanno avuto ricadute positive sull’ambiente circostante sono numerosi. A New York, nel mezzo del quartiere una volta poverissimo di Harlem, c’era un grande spazio abbandonato che era diventato un centro di spaccio di droga. Una fondazione privata lo ha acquistato e vi ha costruito una scuola moderna con buoni insegnanti. Oggi quel progetto, Harlem Children Zone (www. hcz.org) , non solo produce ragazzi che poi vanno in ottime università, ma ha radicalmente cambiato una parte di Harlem, tramite osmosi positive. In una generazione la Corea del Sud è passata da essere il Paese con il più basso numero di laureati nell’Ocse a quello con il numero più elevato e questo grazie a un grande investimento nelle scuole.

Terzo, che cosa insegnare ai ragazzi in tante ore in più a scuola? Non solo e non tanto più nozioni (anche se questo è importante). Soprattutto va insegnata quella che una volta si chiamava «educazione civica». Che non deve voler dire imparare a memoria la Costituzione senza capirla, ma far propri concetti fondamentali, ad esempio che copiare i compiti non è accettabile perché è disonesto, così come farseli fare dai genitori. Se i ragazzi credono che copiare sia accettabile, poi penseranno che anche tante piccole (e poco a poco non così piccole) disonestà nella vita di tutti i giorni siano accettabili: e questo blocca la fiducia reciproca che è la linfa cha fa funzionare le società più avanzate. Va insegnato che i beni pubblici devono essere rispettati, che lo Stato non è un ente astratto e nemico, ma che lo Stato, la collettività, siamo noi e che quindi evadere le imposte è un furto a noi stessi. Bisogna insegnare a lavorare in gruppo e a collaborare con fiducia verso gli altri punendo chi non collabora, costruendo gruppi di studio che mischino ragazze e ragazzi, diverse religioni ed etnie, favorendo così l’integrazione degli immigrati. Bisogna far fare i compiti, magari in gruppo. Va insegnato da un lato a rispettare l’autorità (cioè gli insegnanti), dall’altro a conciliare rispetto con creatività, che richiede un pizzico di ribellione contro lo status quo. È importante portare lo sport nella scuola così che ragazzi e ragazze lo pratichino con attrezzature adeguate e non giocando a calcio in strade polverose, un’attività che esclude le ragazze. Non servono costosissime piscine olimpioniche: un campo di pallacanestro, uno di pallavolo, un paio di campi da tennis, qualche bicicletta, un po’ di attrezzi, anche all’aria aperta, e un allenatore che porti i ragazzi a correre, magari alle 18 quando la scuola chiude.