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Primo giorno di scuola: io insegnante e gli occhi felici dei miei alunni

Tra aule scarne e postazioni abbastanza distanziate, mascherine chirurgiche un po’ larghe (e non fornite dal Miur) e preoccupazioni, vince la gioia di ritrovarsi. Basta non pensare alla responsabilità degli insegnanti, decisamente incommensurabile.

15/09/2020
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Corriere della sera

Emanuela Di PAsqua

Alla fine non ce l’ha fatta nemmeno il Covid-19 a spegnere l’entusiasmo dei bambini nell’andare a scuola. Questa è la prima considerazione che mi viene da fare, in qualità di giornalista ma soprattutto di docente di una classe terza di una scuola primaria genovese.

Gli occhi sembrano felici

Suona la campanella. Nascosti da mascherine chirurgiche, in fila come pulcini, salgono ligi le scale distanziati da tre gradini e si intravedono i loro faccini un po’ tesi. Gli occhi, si sa, si vedono ancora di più. Occhi curiosi, in taluni casi un po’ intimoriti, occhi grandissimi e mobili, occhi che al primo impatto però sembrano felici. Li attenderà una ricreazione asettica (ma l’avranno saputo?) e nonostante le distanze di sicurezza, loro, i bambini, veri protagonisti di questa giornata speciale (e non solo per questo anno), danno la sensazione che a scuola ci volessero proprio tornare. Li aspetta la mia collega dal portone, dispiaciuta di non poterli abbracciare, un po’ frustrata pensando a come avrebbe voluto accoglierli, emozionatissima, un po’ preoccupata, ma felice (anche lei) come una bambina. «Non vedo l’ora che tutto torni come prima», dice una bimba, ma qualcuno le fa eco e sdrammatizza con imitazioni di personaggi politici che parlano di Covid. Altri sciorinano, come una litania, il decalogo delle regole igieniche perfette, mentre lo zoccolo duro della classe dichiara all’unisono quanto sia felice di essere tornato/a. Anche «se a scuola ogni tanto ci si annoia, anche se a volte sono meglio i videogiochi, anche se il corsivo non è mica così semplice, anche se la mattina la sveglia rompe». E felice sono anche io e solo quando li vedo capisco quanto mi sono mancati e mi ricordo di quanto sono simpatici e allegri, di quanto il pensiero infantile porti leggerezza e pace. Di quanto sono belli, tutti, senza i denti davanti, un po’ tesi e un po’ con la ridarella (probabilmente da tensione).

Piccoli paladini delle regole

Vuoi che una regola venga rispettata? Affida l’operazione a un bambino. Questo già si sapeva o quantomeno lo sa molto bene chi frequenta e conosce bene i bambini. Non c’è personcina più seria di un bambino e, normalmente, i piccoli sono molto ligi se capiscono la regola e la interiorizzano. Non solo, normalmente si battono anche con una certa severità per far rispettare le norme e normalmente vorrebbero infliggere ai trasgressori pene durissime. Dunque l’operazione mascherina dinamica funziona. Semmai ogni tanto bisogna convincere qualche bimbo che, considerata la posizione statica e la distanza di sicurezza, potrebbe tranquillamente tirarsi giù la mascherina e invece sin ostina a tenersela stretta, nonostante il caldo canicolare. Abbondano poi gli igienizzanti, spalmati con eccesso di generosità nelle loro manine con evidente soddisfazione, come se l’operazione li facesse sentire utili e grandi.

Un punto fermo al quale tornare

Ovviamente si vede subito che hanno avuto dei messaggi diversificati da parte delle famiglie, tutte grosso modo responsabili e avvedute con qualche differenza. Il Covid-19 evidenzia alcuni archetipi ed è una potente cartina di tornasole. Attraverso gli occhi dei bambini si vedono le famiglie preoccupate, quelle più disinvolte, quelle negazioniste, quelle stressate, quelle rilassate ma di buon senso, quelle rigorose. Come in tutto i bambini assorbono le tensioni e le convinzioni, gli atteggiamenti, le idee, l’essenza, ancor più se i messaggi arrivano sotto pelle, in forma non di un messaggio esplicito, ma di un’atmosfera che regna in casa. Il comune denominatore però è l’esistenza e la percezione di una scuola ubi consistam, un posto dove poter stare, un punto fermo in un mondo sempre più aleatorio dove, a far compagnia agli attentati e alle allerte meteo, ora è arrivato anche il Coronavirus. Lontanissime le pagine del libro Cuore che leggevo da bambina e nelle quali ancora, tutto sommato, mi identificavo. «Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne dove passai l’estate!», pensava Enrico. Mentre De Amicis dipingeva i bambini urlanti che si impuntavano come somarelli all’entrata della scuola, piangendo all’idea del distacco dai parenti. Oggi, nel 2020, ai bambini, quantomeno a quelli più piccoli, la scuola piace e su questo non ho dubbi. Nessuna ombra di pianti fuori dal portone, saluti frettolosi con i genitori e, ahimé, pochi baci. E persino i primini, quelli che cresceranno con questa imprinting e con l’idea che la scuola sia questa “roba” qui, sembrano tranquilli. Come se fosse tutto normale e del resto, questo è il punto, questo modo di fare scuola è la loro normalità.

Un po’ famiglia

Chi frequenta la scuola lo sa: 5, 7, 8 ore insieme tutti i giorni sono un pezzo troppo importante della giornata, ci si conosce nel profondo, ci si ama, ci si sopporta o mal sopporta, ma è innegabile che la scuola sia diventata un po’ famiglia e oggi che si torna tutti si capisce quanto ci si è mancati. Dalla parte del docente è un colpo al cuore: quanto sono cresciuti! Sette mesi per un bambino sono un’enormità, ci sono vere e proprie mutazioni, espressioni inedite, centimetri e aumenti ponderali stupefacenti e soprattutto, dirò una banalità, sono cambiati nel modo di essere. Vederli, rivederli, è un’emozione enorme, forse amplificata da un clima di preoccupazione e dalla consapevolezza che, comunque vada, stiamo vivendo un momento epocale. Tanti quelli che hanno dormito male in questa vigilia caldissima: bambini e insegnanti, che si giravano e rigiravano nel letto, un po’ emozionati e un po’ preoccupati, un po’ elettrizzati e un po’ angosciati.

Mamma mia che responsabilità

Il secondo pensiero è banale, ma era rimasto sfocato in tutto questo tempo sospeso pre-apertura fatto di riunioni, articoli, post condivisi, rumors e telefonate, contrordini: “quanta responsabilità abbiamo noi insegnanti?”. Se prima si doveva stare attenti che non si facessero male o che non accadesse nulla di vagamente sconveniente, ora bisognerà semplicemente vigilare incessantemente sui centimetri di distanza, sul colpo di tosse, sulla mascherina abbassata o le mani che si sfiorano. Ce la sentiamo? Riusciremo? Siamo pronti a dir loro che la ricreazione avverrà mascherati, che non si potranno abbracciare (quando magari i loro fratelli e/o sorelle più grandi hanno trascorso l’estate nella movida), che non ci potremo abbracciare? E alla fine è arrivata anche la ricreazione. E l’abbiamo vista in faccia, realizzando finalmente come poteva snodarsi un momento ricreativo badando alle distanze e con mascherina indossata. E’ chiaro subito, quasi subito, che non è così facile ricrearsi, che «l’assemblamento» (come molti di loro dicono) è dietro l’angolo e che trovare soluzioni pratiche alle tante regole del Miur è impresa titanica. E’ tutto un no, frustrato e sofferente, a ciò che i bimbi provano a fare. Si normalizzerà? Si ammorbidirà? Ci aiuterà il gioco en plein air? Intanto alla fine finiamo di nuovo tutti seduti e risolvere, come passatempo ludico, rompicapo alla Lim. I giovani studenti si adattano anche a questo, si entusiasmano e gareggiano. In un attimo la ricreazione pre-Covid sembra lontanissima.

L’aula

L’aula è vuota questo anno: nessun cartellone alla pareti, nessun disegno e nessun palloncino con i loro nomi. Dopo l’incontro sulla sicurezza si capisce che forse si è esagerato, ma la sensazione ogni tanto è quella di non capire fino in fondo il perché di certe policies. Il tempo per le domande si è esaurito, tutte noi docenti sappiamo esattamente i tempi di permanenza del virus sulla plastica e sull’acciaio, sui tessuti o sulla carta. Presto tanti piccoli gesti verranno naturali, mentre i bambini, ligi e addestrati, si dimostrano molto più adattabili dei grandi, piegano i loro giacchini nei sacchetti di stoffa da lasciare fuori, e giocano da un banco all’altro come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se non ci fosse un domani.

Ti sei salvato, compagno di banco?

E’ il definitivo tramonto di una figura iconica, il compagno di banco. Travolto dai banchi singoli o da quelli a isola con quattro postazioni, sparisce inesorabilmente (e secondo me per sempre) il compagno di banco. Figura iconica, più che un congiunto, qualcosa di diverso e di molto di più del compagno di classe. Uno di cui normalmente conoscevi tutti i segreti, che ti poteva aiutare o fregare, che ha ispirato canzoni, giochi e litigi. E che nessuno di noi può scordare. I posti sono fissi, non si cambia più, si è distanziati da tutti e da nessuno. Inizia una nuova epoca, che sarà foriera anche di un modo nuovo di insegnare e di stare insieme. Spazio alla creatività, ai giochi nuovi e a quelli vecchi declinati in modo originale. Spazio ai bimbi e alo loro sguardo sul mondo che ci renderà tutto più semplice.