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Repubblica: Dulbecco, vita da Nobel

Anticipazione/ Le interviste di Piergiorgio Odifreddi ai geni del nostro tempo

21/04/2006
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la Repubblica

"Quando proposi il progetto Genoma nel 1985 sembrava un´idea pazzesca"
"Ho studiato con Giuseppe Levi e con Rita Levi Montalcini dividevo l´ufficio"
"Ho seguito un corso di fisica di Richard Feynman: come persona era strano e aveva la mania del bongo"
"Quando vinsi il premio a Stoccolma mi coinvolsero nella campagna contro il fumo: era un´occasion da non perdere"
PIERGIORGIO ODIFREDDI


La vita di Renato Dulbecco è stata popolata, per non dire sovraffollata, di premi Nobel: fra i suoi compagni di scuola (Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini), i suoi professori (lo stesso Luria e Max Delbrück), e i suoi amici (Jim Watson e Richard Feynman). Oltre, naturalmente, a lui stesso e i suoi i suoi studenti Howard Temin e David Baltimore, vincitori nel 1975 per lo studio dei virus e delle cellule tumorali.
Laureato in medicina a soli 22 anni, Dulbecco è stato il padre della virologia moderna, uno dei pionieri dello studio del cancro, l´alfiere della lotta contro il fumo, l´ideatore del Progetto Genoma, un divulgatore di talento, un opinionista da prima pagina, il presentatore di un Festival di Sanremo, il testimonial d´onore del Telethon e, dulcis in fundo, l´ispiratore di un personaggio di fumetti chiamato Dulby.
Dopo aver raccontato la sua ricca esperienza in Scienza, vita e avventura (Sperling & Kupfer, 1989), Dulbecco ha generosamente acconsentito a ripercorrerne alcune tappe salienti con noi a Lugano, nella sua bella casa sul lago.
Lei ha studiato a Torino col professor Giuseppe Levi, e ha avuto come compagni di studi Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Non è strano che da una stessa scuola siano usciti tre premi Nobel?
«Statisticamente, è un po´ improbabile. Però bisogna tener presente la personalità di Levi, che ha avuto un´influenza molto utile e benefica. Lui incoraggiava molto a fare, ma era estremamente critico: quando uno aveva un risultato e glielo faceva vedere, bisognava convincerlo. Il più delle volte trovava i punti deboli, che è quello che ci vuole per fare uno scienziato: può essere una ragione per cui queste tre persone sono poi arrivate a certi traguardi».
Siete stati molto uniti?
«Certo. Con Luria ho lavorato negli Stati Uniti per due anni. Con la Levi Montalcini dividevamo l´ufficio a Torino, e per combinazione siamo partiti per l´America sullo stesso vapore polacco, che si chiamava Sovietsky. Là non stavamo lontani, io a Bloomington con Luria e lei a San Louis, per cui ogni tanto ci trovavamo, chiaccheravamo, parlavamo di quello che facevamo. E´ stato un gruppo sempre unito anche dopo».
Come mai, dopo la laurea in medicina, lei aveva anche studiato fisica a Torino?
«Dopo la guerra, quando sono ritornato a lavorare da Levi, l´idea dei geni mi affascinava. Ma nessuno ne sapeva niente e non se n´era mai parlato a medicina, nessuno ce li aveva insegnati. Io credevo che l´unico modo per studiarli fosse di usare radiazioni, e mi sono iscritto a fisica per sapere come le radiazioni funzionano, e come poterne analizzare gli effetti».
Non è stato dunque perché, come tanti altri, aveva letto Che cos´è la vita» di Schrödinger?
«Non credo. Il fatto è che la fisica mi è sempre piaciuta, e anche la matematica. Già nella scuola media ero il più in gamba in quelle materie».
Negli anni ‘50 i fisici hanno poi avuto un ruolo fondamentale nella biologia: Crick, ad esempio.
«Il suo contributo fondamentale fu la conoscenza della cristallografia a raggi X, che è stata essenziale per la scoperta della struttura del DNA». (...)
Lei ha lavorato anche con Delbrück, che ha condiviso con Luria il premio Nobel del 1969.
«Lui ha avuto un´influenza notevolissima. Era una strana miscela: molto all´avanguardia, ma allo stesso tempo conservatore. Mi ricordo che quando Jim Watson venne a Caltech dopo la scoperta della doppia elica, pensammo che bisognasse organizzare una biologia molecolare. Andammo a dirlo a Max, ma a lui non piacque: diceva che era troppo presto, che non c´erano dati, che non valeva la pena pensarci. Da una parte aveva ragione, perché avere idee senza riscontri precisi è pericoloso. Ma dall´altra parte uno deve pur osare, altrimenti non fa niente».
A Caltech lei era amico del famoso fisico Richard Feynman, premio Nobel nel 1965.
«Ho addirittura seguito un suo corso di fisica, sulla meccanica quantistica. Insegnava molto bene, era molto chiaro: anche uno come me, che non aveva mantenuto la connessione con la fisica, poteva seguirlo. Come persona era strana, con le sue manie dei bongos: gli interessavano specialmente i ritmi anormali, tipo 5/6 o 6/7. E io riuscivo a farli con lui».
Non mi dirà che anche lei suona il bongo!
«No, no. Però potevo bilanciare il ritmo, per cui andavamo d´accordo. Cercammo di fare un lavoro insieme, ed è un peccato che non ci siamo riusciti. Tutto era chiaro, l´idea era perfetta, mancava solo un piccolo dettaglio tecnico. Non funzionò (...) in fondo per me è andata meglio così, perché altrimenti mi sarei orientato in un´altra direzione». (...)
Parliamo invece di lei, e dei lavori degli anni ‘50 che le hanno meritato il titolo di «padre della virologia».
«Luria aveva scoperto che, benché un fago (virus parassita, n.d.r.) venga inattivato dalla luce ultravioletta, se più fagi infettano una cellula la loro sopravvivenza aumenta. Lui pensava che questa molteplicity reactivation, riattivazione per molteplicità, fosse dovuta a scambi tra i DNA dei fagi, che ne aumentavano la capacità di resistenza. Io invece scoprii, con metodi matematici, che il fenomeno era provocato da una differenza funzionale di varie parti del DNA. Da lì fu possibile scoprire che i danni sono modificati da un´azione enzimatica, e che i geni di questa azione stanno nel DNA del virus».
Questi erano i suoi lavori a Bloomington. Cambiò qualcosa, quando andò a Caltech?
«Capitò una cosa imprevedibile. Un amico del presidente dell´università, che aveva un herpes, stanziò una grossa somma perché si cominciassero a studiare i virus patogeni delle malattie, invece dei virus giocattolo da laboratorio. Delbrück convocò Seymour Benzer e me, e ci chiese se eravamo interessati. Benzer, che era un fisico, preferì continuare il suo lavoro. Io, che in fin dei conti ero un medico, accettai. Proposi un adattamento del metodo quantitativo delle placche che si usava coi fagi, che è poi stato fondamentale per lo sviluppo dei vaccini e lo studio degli anticorpi».
E´ per questo che ha ricevuto il premio Nobel?
«No, no. E´ per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l´esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il premio Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un´azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori l´idea che ci doveva essere un´interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Quando Temin discusse la sua tesi, Delbrück disse che non c´era nessuna prova: un altro esempio del suo pragmatismo». (...)
In occasione della premiazione per il Nobel lei ha preso una posizione molto netta contro il fumo.
«A me questa storia non aveva mai interessato prima, perché io non fumo. Ma ero in contatto col gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro del polmone. Avevano cercato di indurmi a lavorare con loro, e quando ho preso il premio Nobel sono venuti a dirmi che era un´occasione da non perdere. Io mi sono entusiasmato e ho fatto quella dichiarazione: sa, quando arriva il Nobel si diventa un po´ matti».
Non è un po´ strano che ci sia il proibizionismo contro le droghe, anche leggere, ma il commercio del tabacco sia libero?
«Beh, il tabacco lo producono gli Stati Uniti, le droghe no».
Come le venne in mente, invece, l´idea del Progetto Genoma?
«Dopo il premio Nobel decisi di concentrarmi su cancri di significato medico, ad esempio quello del seno. Era chiaro che molti geni dovevano cambiare attività col cancro, ma non si sapeva quali. A quell´epoca se ne conoscevano pochissimi, e ho pensato che bisognava assolutamente studiarli sistematicamente e sequenziare il genoma. Lo proposi nella primavera o all´inizio dell´estate del 1985, in una conferenza a Cold Spring Harbor, e mi ricordo il grande scetticismo della gente, che quasi pensava che fossi matto. Poi però qualcuno dei miei colleghi cominciò a dire che non era poi un´idea così pazzesca, e io decisi di scrivere l´articolo per Science che uscì nel marzo del 1986».
Lei immaginava, nel 1986, che sarebbero bastati quindici anni?
«Sì. Avevo fiducia, e l´ho anche scritto. Non avevamo le tecnologie, ma se la gente ci si mette le tecnologie arrivano. E infatti sono arrivate» (...).
Un´ultima curiosità. Nel suo libro lei ha fatto molti esempi di applicazioni della genetica al carattere.
«Perché sembra che queste cose interessino la gente».
Sì, ma io volevo spingerla al limite e chiederle se anche le scelte religiose potrebbero avere un substrato genetico.
«Può essere benissimo, perché tutti i popoli hanno qualche tipo di religione: evidentemente, tutti si pongono la domanda di che cosa c´è al di fuori di ciò che vediamo. Se questo possa aver avuto un significato evolutivo ed essere determinato dai geni, non si sa. O meglio, io non lo so. Penso che ci sia un´influenza tra genetica e religione, ma non so in che direzione: se è la religione a influenzare la genetica, o viceversa. O se interagiscono indipendentemente: forse quest´ultima possibilità è la più plausibile».
E lei è religioso?
«No. E sono senz´altro contrario alle posizioni religiose sulle cellule staminali e sugli embrioni sovranumerari».