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Ricciardi "Il Technopole è la casa degli scienziati. Nessuno sarà penalizzato"

Intervista. L’emendamento della senatrice Cattaneo è una istanza giusta presentata in modo sbagliato. Se passasse potremmo non sopravvivere

19/11/2019
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la Repubblica

Elena DUsi

«Nessuna chiusura. Il Technopole sarà una casa aperta a tutti gli scienziati». Walter Ricciardi, 60 anni, professore di Igiene all’università Cattolica ed ex presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, è appena stato nominato coordinatore del Consiglio Scientifico di Human Technopole. E viene subito accolto a Milano dalle polemiche. Sono appena svaporate le bollicine del 5 novembre, inaugurazione della sede di Human Technopole a Palazzo Italia, che tornano a ribollire i malumori contro il centro di biologia e medicina che il governo Renzi, nel 2016, decise di finanziare con 140 milioni all’anno per 10 anni. La senatrice a vita Elena Cattaneo, ricercatrice all’università di Milano, in una lettera a Il Messaggero ha annunciato un emendamento alla legge di bilancio «che destina almeno 80 di quei 140 milioni pubblici» alla creazione di "facilities nazionali" aperte a tutti gli scienziati d’Italia.

Vuol dire che la casa del Technopole, che si sta dotando in questi mesi di microscopi, apparecchi per il sequenziamento del Dna e altre attrezzature quasi uniche in Italia, dovrà essere accessibile — e per legge — a tutti gli scienziati d’Italia, appartenenti a università, enti di ricerca pubblici e istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. «Sosterrò questa iniziativa» ha ribadito il ministro dell’Università e della Ricerca Lorenzo Fioramonti.

Professor Ricciardi, la richiesta è giusta?

«È un’istanza giusta presentata nel modo sbagliato. Il Technopole ha sempre detto di voler diventare una risorsa per tutto il paese, non solo per i propri scienziati. Ma occorre che troviamo i meccanismi giusti».

Se siete d’accordo sul principio, perché dubita di un accordo?

«L’apertura agli scienziati esterni è scritta nelle nostre linee programmatiche. E visto che noi ci riteniamo interlocutori degni di fiducia, non c’è bisogno di un emendamento nella finanziaria. Così si rischia solo di irrigidire il sistema.

Burocrazie e rallentamenti possono paralizzarci».

Vuol dire che il Technopole non sopravviverebbe a una norma così?

«Non è detto. Stiamo avviando un motore nuovo e abbiamo bisogno di accelerare, non di frenare. I ricercatori che vengono reclutati sono grandissimi nomi della scienza mondiale e hanno un profluvio di offerte alternative. Non verrebbero a Milano, se il nostro futuro fosse incerto. Un fallimento del Technopole avrebbe ripercussioni enormi sulla fiducia nell’Italia».

Il Technopole potrebbe sorgere in una città diversa da Milano?

«Teoricamente sì. Ma qui abbiamo trovato un allineamento di istituzioni che vanno dal governo, agli enti di ricerca, alla Regione, fino al Comune che ci hanno sostenuto dal punto di vista logistico e finanziario. L’area dell’ex Expo è una struttura per noi molto ospitale. Non so se altrove avremmo trovato condizioni simili».

E sarebbe potuto sorgere in regime totalmente pubblico, non come fondazione di diritto privato?

«Sono stato presidente dell’Istituto Superiore di Sanità fino a 11 mesi fa e posso dire che le regole del settore pubblico sono veramente difficili. Le lungaggini della burocrazia sono incompatibili con i tempi della ricerca, che corre rapida e vive di competizione internazionale. È brutto dirlo, ma non credo che in regime totalmente pubblico saremmo riusciti a comprare i microscopi all’avanguardia di cui ci stiamo dotando»

Perché il Technopole attira da sempre tutte queste polemiche?

«Non lo so. Capisco che la fase iniziale dell’operazione potesse sembrare poco trasparente. Ma si doveva pur partire. Oggi che l’evoluzione positiva sembrava ben avviata, c’è stato un ritorno delle polemiche. Dico solo che il fallimento del Technopole sarebbe un danno per tutta l’Italia».

In che modo ci dimostrerete se la fiducia in voi è stata ben riposta?

«Migliorando la vita e la salute degli italiani. Non è un dato scontato, perché per la prima volta oggi corriamo il rischio di veder ridotta la nostra aspettativa di vita rispetto alle generazioni precedenti. In Gran Bretagna accade da tre anni di seguito. Da noi l’aspettativa resta alta, ma gli ultimi anni di vita dei nostri anziani sono costellati di malattie. Il cancro è diventata la prima causa di mortalità in Europa, superando le malattie cardiovascolari. Non è un caso che Bruxelles abbia deciso di investire pesantemente in questo settore. Dobbiamo farlo anche noi e senza esitazioni».