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Scienza aperta: solo una questione di adempimenti?

Riprendiamo qui un intervento di Maria Chiara Pievatolo apparso sul Bollettino telematico di filosofia politica. L’autrice si interroga sulla possibilità che la scienza aperta diventi veramente la modalità di pratica della scienza oltre ogni adempimento o costrizione derivante dall’esterno (ad esempio le regole degli enti finanziatori della ricerca). Roberto Caso prova a fornire una risposta avviando una discussione che merita di essere approfondita.

19/09/2020
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Corriere della sera

Riprendiamo qui un intervento di Maria Chiara Pievatolo apparso sul Bollettino telematico di filosofia politica. L’autrice si interroga sulla possibilità che la scienza aperta diventi veramente la modalità di pratica della scienza oltre ogni adempimento o costrizione derivante dall’esterno (ad esempio le regole degli enti finanziatori della ricerca). Roberto Caso prova a fornire una risposta avviando una discussione che merita di essere approfondita.

Paola Galimberti ha reso pubblico su Zenodo.org un breve articolo, Open Science: cambiamento culturale cercasi, per offrire un resoconto ragionato del modo in cui  l’università statale di Milano ha perseguito e va perseguendo l’apertura della scienza.

La Statale, negli anni. ha reso disponibili strumenti, quali gli archivi istituzionali per il deposito di testi e dati della ricerca e una piattaforma per pubblicare riviste ad accesso aperto e gratuito sia dal lato del lettore sia da quello dell’autore, ha deliberato discipline, e ha monitorato e diffuso i dati sui loro effetti e sui loro costi. Buona parte delle amministrazioni universitarie si interessano di scienza aperta per lo più in virtù di quanto imposto dai bandi dell’Unione Europea, in Italia indebitamente assunti a surrogati del finanziatore ordinario. L’ateneo milanese ha dunque l’ulteriore merito di averla perseguita in un ambiente che le è indifferente se non ostile. L’articolo, però, non è stato scritto per celebrare l’efficienza milanese, bensì per chiedere se – a Milano e altrove – sia possibile superare la logica dell’adempimento amministrativo per trasformare la scienza aperta in una pratica di ricerca diffusa e condivisa.

Quando, all’inizio dell’età moderna, la scienza cominciò la sua rivoluzione, la  pubblicità – come strumento di discussione e di falsificazione –  s’impose senza aver bisogno di essere imposta. Perché oggi, invece, viene perseguita come un adempimento amministrativo esteriore – così esteriore che pochissimi si sono resi conto che certi contratti detti trasformativi trasferiscono semplicemente in scrittura l’oligopolio in lettura di una manciata di editori scientifici commerciali?

La scienza aperta, se presa sul serio, è tale non solo nel suo medium ma anche nei suoi fini, entro un orizzonte che supera la durata del corpo e del nome del singolo  studioso: la conversazione non può e non deve aver conclusione perché chi indaga è un essere finito destinato a essere superato.  Anche per questo  – perché agli esseri finiti è difficile fare i conti con la propria fine – è stato semplice addestrare i ricercatori alla logica dell’adempimento burocratico, con incentivi e disincentivi individuali a brevissimo termine, ancorché di valore scarso o addirittura controproducente. L’università di Milano persegue l’open science con un certo grado di democrazia – si pensi per esempio alla sua commissione per l’accesso aperto che, invece di essere emanazione di un rettore-monarca, è composta dai delegati dei dipartimenti – ma che cosa ci impedisce di rappresentarla, entro la camicia di forza burocratica che impoverisce e comprime la ricerca italiana, come un mero esempio di efficienza amministrativa, ancora interamente prigioniero della logica dell’adempimento?

A questa domanda, proposta da chi scrive, ha tentato di rispondere Roberto Caso:

L’università di Milano ha devoluto risorse e investito sistematicamente in un’organizzazione favorevole alla scienza aperta; l’ha fatto con un processo trasparente e, soprattutto, dedica tempo e spazio alla formazione e all’informazione dei ricercatori.
Ciò dovrebbe essere sufficiente a convincerli che la scienza aperta è l’unico modo di fare scienza. In altri termini, dovrebbe scavare la differenza tra adempimento burocratico e obbligo morale (o anche semplice opportunità per se stessi e per tutti). Ma i ricercatori vivono nel mondo dell’università-azienda e hanno ormai talmente metabolizzato la logica dei premi e punizioni da non riuscire a concepire un mondo diverso. Anche quando premi e punizioni non sono istituzionalizzati a livello di ateneo il maggior incentivo a pubblicare in OA è la speranza di essere più citati.
Paola Galimberti ha più volte evidenziato che a Milano molte cose sono state fatte perché l’ateneo aderisce a LERU che applica ai suoi soci la logica di premi, punizioni e misure [ancorché solo reputazionali – N.d.R.]. Il che non sorprende e chiude il cerchio.

La discussione sull’articolo di Paola Galimberti, anteriore alla sua pubblicazione, è qui riportata sia perché rientra nella nostra prassi di revisione paritaria aperta, sia perché chi vi ha partecipato è convinto che la questione dell’open science, se emancipata  dalla logica dell’adempimento burocratico, potrebbe aiutare a ridiscutere il senso e il ruolo dell’università, almeno per chi non si accontenta di ridurla “a una mera struttura contabile, dove alla gerarchia priva di autorità di gruppi accademici che si azzuffano nella difesa d’interessi minimali si affiancano la degenerazione e la corruzione caratteristiche degli apparati aziendali e amministrativi“.