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Scuola fino ai 18 anni? Sì, ma andiamo oltre gli slogan

di Francesco Sinopoli, Segretario generale FLC CGIL.

30/08/2017
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ItaliaOggi

Le proposte suscitate in queste settimane dalla ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli su innalzamento dell'obbligo scolastico a 18 anni e avvio della sperimentazione del quadriennio nelle superiori in 100 classi, in virtù di progetti elaborati dagli stessi istituti e valutati da un'apposita commissione ministeriale, com'era prevedibile hanno suscitato un vespaio di polemiche, con articoli e commenti su diversi quotidiani di personalità del mondo accademico e scientifico, e di docenti. Intanto, va sottolineata subito l'impressione di estemporaneità dettata dalle proposte della ministra: di innalzamento dell'obbligo a 18 anni ne ha parlato nel contesto del Meeting riminese di Comunione e Liberazione, mentre di sperimentazione del quadriennio ne ha parlato dopo aver firmato il decreto, che non rispecchia alcune delle linee tendenziali elaborate dal Consiglio nazionale della Pubblica istruzione.

Su quest'ultimo si è perfino resa disponibile a un eventuale passo indietro, qualora dagli istituti scolastici dovesse pervenire e manifestarsi un generale disappunto critico. È il segno evidente di qualcosa che non va nell'impostazione stessa con cui si definiscono i cambiamenti nella scuola, sempre più parcellizzati e segmentati, sollecitati più da bisogni politico-elettorali e di propaganda che dall'emergere di un vero e proprio dibattito pubblico.

La Cgil ha da sempre valutato positivamente l'innalzamento dell'età dell'obbligo scolastico a 18 anni. Tuttavia, ha sempre avvertito che esso va inserito in un più radicale processo di rinnovamento del sistema scolastico, e di quest'ultimo nel suo rapporto col mondo del lavoro. Non si può non discutere innanzitutto di una riforma sistemica dei cicli, e non si può non problematizzare il cruciale tema delle transizioni da un sistema didattico ad un altro, il passaggio dall'educazione basata sulla centralità dell'alunno nelle scuole dell'infanzia e primarie, a quella centrata sulle discipline tipica delle scuole medie inferiori.

Né si deve fare a meno di coinvolgere mondo della scuola e comunità scientifica nel dibattito su questa decisiva transizione, cercando le migliori soluzioni per porre rimedio ai suoi limiti, in modo da evitare che nessuno studente resti indietro, e che la scuola non si trasformi essa stessa in istituzione che moltiplica le ingiustizie sociali e le diseguaglianze, alimentando quelle già dure di partenza.

Si potrebbe guardare ai diversi modelli europei, nella consapevolezza che nessuno è perfetto, e che ciascuno trova una propria adattabilità alle condizioni di contesto storico, geopolitico e culturale. Oppure, si potrebbe pensare a un modello inedito, che possa essere maggiormente adatto alle condizioni socio-culturali del nostro Paese. Non ci sono ricette preconfezionate e buone per riformare il sistema dei cicli, e va aperto il dibattito. Ma è sbagliato non far dipendere da questo sforzo collettivo il senso stesso dell'innalzamento dell'obbligo, e la durata stessa delle secondarie superiori. Le cose si tengono nella scuola.

Inoltre, occorre ricostruire una relazione positiva tra mondo della scuola e mondo del lavoro, messa in discussione dalla scellerata vicenda dell'alternanza, elaborata male, gestita peggio. Per i nostri studenti, un'esperienza che avrebbe potuto essere straordinaria ed efficace, si sta rivelando un incubo. Tantissime testimonianze ci insegnano che l'alternanza scuola-lavoro si può trasformare in una forma di nuova sottomissione, nella quale i ragazzi e soprattutto le ragazze hanno la peggio proprio per effetto della loro fragilità e ricattabilità (l'obbligo delle ore di alternanza conduce purtroppo a queste situazioni).

Con l'alternanza scuola-lavoro nelle modalità con cui in troppi casi è stata concepita e attuata, si sta costruendo un alibi affinché le aziende continuino a disinvestire in formazione, assecondando l'idea folle che la scuola possa assolvere ad un compito che spetta alle imprese. Invece, essa ha senso proprio se inserita in un progetto per rendere il lavoro migliore. Perché non partire dal monitoraggio che ci consegna il fallimento dell'alternanza, per elaborare soluzioni razionali prima ancora di sperimentare?

Da una parte si lancia lo spot sul quadriennio, ma dall'altra non si ha il coraggio di intervenire sulle storture e le deficienze, strutturali e accidentali, dell'alternanza scuola-lavoro. E queste due cose sono anch'esse strettamente legate. Così come s'intreccia la questione salariale apertasi col rinnovo contrattuale. Se davvero, come spesso ripete la ministra Fedeli, si vuole restituire dignità e funzione sociale a insegnanti e docenti occorre trovare tutte le risorse possibili per stipendi e salari coerenti con le migliori esperienze europee.

Gli 85 euro medi previsti non bastano davvero a raggiungere i livelli di un paese moderno ed europeo. S'impegni, il governo, a riformulare la legge di Bilancio partendo dal risanamento della enorme questione salariale vissuta drammaticamente da tutto l'impiego pubblico e in particolar modo dal personale scolastico. Questa è una delle priorità decisive, se davvero si vuole rendere la scuola «buona».

Last but not least: occorre convincersi che nessuna riforma può essere parziale e dettata dalle condizioni di una qualunque maggioranza parlamentare risicata (o peggio dai voti di fiducia). La riforma della scuola va assunta come la riforma costituzionale: necessita del più largo consenso, perché essa è bene comune e universale. L'unico modo per riformarla è immaginare una Costituente dal basso.