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Scuola, gli algoritmi del Tar sulle graduatorie

Siamo invasi e circondati dagli algoritmi, che ci semplificano la vita, ma ci consegnano agli oligarchi proprietari del capitalismo cognitivo. È una delle contraddizioni fondamentali del secolo e del millennio, dentro la quale si svolge una cosa che assomiglia alla «lotta di classe», dove le polarità dialettiche sono i digital citizens e i padroni delle ferriere dell’iCloud

10/05/2017
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il manifesto

Vincenzo Vita

La sentenza n.202 del luglio 1976 segnò una svolta nel e del mondo dell’emittenza, aprendo al mercato privato. Com’è noto, il vecchio monopolio della Rai vacillò e l’universo radiotelevisivo non tornò mai più come prima.

Mutatis mutandis, il provvedimento del Tar del Lazio n.3769 del marzo scorso sulla trasparenza degli algoritmi costituisce un precedente a suo modo altrettanto «rivoluzionario».
La decisione è nata dal ricorso alla giustizia amministrativa di un docente in merito al trasferimento interprovinciale deciso dal ministero dell’istruzione – ecco uno dei lasciti della «Buona scuola» – sulla base di un algoritmo.

Quest’ultimo, come sintetizza Pedro Domingos (2015), «è una sequenza di istruzioni che dice a un computer cosa fare…Gli algoritmi si combinano tra di loro per utilizzare i risultati di altri algoritmi, e i loro risultati finiscono in pasto a ulteriori algoritmi…formano un nuovo tipo di ecosistema…».

Lo studioso Michele Mezza aggiunge che siamo di fronte a «un principio attivo, una sequenza matematica, che ottimizza la soluzione automatica di un problema».

Ecco, il ricorso cui il Tar ha dato ragione poneva il problema di poter accedere ai cosiddetti codici sorgenti, vale a dire il calco originario da cui si dipanano i labirinti del software, peraltro decisi da società private cui il Miur ha affidato la commessa. «Elementare Watson», affermava il famoso investigatore così prefigurante dei successivi stili narrativi. Appunto, elementare.

L’amministrazione, che si avvarrà pure di scienziati espertissimi e in possesso del latinorum della nuova religione tecnologica tanto da disegnare – dalle Alpi alle Piramidi – la mappa di migliaia di posizioni lavorative, ha l’obbligo di essere trasparente. I codici sorgenti sono un alfabeto e non è democratico che solo taluni «sacerdoti» abbiano accesso al tempio dei saperi digitali. Qualcosa di analogo è certamente avvenuto in altre storiche fratture tecniche, ma ora la quantità fa la qualità.

La sentenza, quindi, è un vero e proprio balzo in avanti, che supera le stesse parti migliori delle disposizioni legislative e regolamentari che hanno parzialmente avvicinato l’Italia alle culture e agli stili del Foia (Freedom of information act): i decreti del 2013 e del 2016, nonché le conseguenti Linee guida dell’Autorità anticorruzione.

Nei testi citati l’apertura alla conoscenza delle procedure è assai timida, davvero troppe rimanendo le eccezioni. La scelta del Tar interpella, invece, enti e istituzioni sulla necessità di rompere i vincoli della segretezza.

La cittadinanza dell’era numerica passa su simili tornanti e l’oscurità persistente altro non è che il mantenimento del potere nelle mani di ceti burocratici alleati (subalterni) degli specialismi separati.

Siamo invasi e circondati dagli algoritmi, che ci semplificano la vita, ma ci consegnano agli oligarchi proprietari del capitalismo cognitivo. È una delle contraddizioni fondamentali del secolo e del millennio, dentro la quale si svolge una cosa che assomiglia alla «lotta di classe», dove le polarità dialettiche sono i digital citizens e i padroni delle ferriere dell’iCloud. Ne va della sovranità, quella seria, non xenofoba. La difesa delle prerogative dello stato nazionale sta nell’autonomia decisionale.

La sfera pubblica è messa alla prova e sarà giudicata dalla capacità di interagire con i luoghi in cui si decide. La sentenza del Tar possa, quindi, illuminare le menti, ancora analogiche, di un ceto politico abituato a ridurre il digitale a un brand pubblicitario.