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Scuola in ospedale e Covid: facciamo tornare gli insegnanti in corsia

Il pedagogista Raffaele Mantegazza: «Così bambini e ragazzi escono dallo status di pazienti e tornano studenti. E il teorema di Pitagora li aiuta a vincere la paura della malattia»

22/09/2020
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Corriere della sera

di Raffaele Mantegazza*

Può un bambino o un adolescente ricoverato per lunghi mesi in ospedale fare i compiti, studiare per una verifica, assistere a una lezione? Può un piccolo ospite di un reparto ospedaliero pensare di appartenere ancora alla classe Terza B anche se questa non lo accoglie fisicamente da mesi? Può il teorema di Pitagora aiutare a superare la paura del dolore, della malattia, degli interventi chirurgici, della morte? Grazie alla scuola in ospedale tutto questo è possibile. Questa istituzione ancora poco conosciuta e attiva in molti ospedali italiani permette ai giovani e ai giovanissimi le cui patologie prevedono lunghi ricoveri di recuperare la loro identità di scolari e studenti. Insegnanti abilitati, che superano una prova di idoneità e continuano la loro formazione per anni, prestano servizio nei reparti ospedalieri restituendo ai ragazzi e ai bambini la dignità e la normalità del fare scuola.

Da quasi vent’anni lavoro a fianco di questi instancabili colleghi cercando di raccogliere le loro storie e di proporre momenti di formazione e di condivisione. La scuola in ospedale in tanti anni ha elaborato progetti ed esperienze lavorando sugli snodi specifici di questa particolare modalità di fare scuola: dai contatti con gli istituti di provenienza dei ragazzi, resi possibili da scambi di lettere, disegni e quando è possibile anche da lezioni miste con l’ausilio della videoconferenza; all’incontro con i genitori che vivono drammaticamente la malattia del proprio figlio e che trovano negli insegnanti un motivo di speranza e di dialogo; alle modalità di rapporto con il bambino o il ragazzo, soprattutto quando l’insegnante lo incontra al suo letto di degenza e deve tenere conto dell’intimità, dell’affaticamento, del dolore e della paura; al valore e al senso delle verifiche che non si riducono al «dare un voto» (in realtà questo non dovrebbe mai accadere!) ma offrono al ragazzo un’occasione per mettersi alla prova in una situazione difficile; al terribile tema della morte, che purtroppo a volte interrompe la relazione educativa e lascia agli insegnanti il difficile compito di elaborare il lutto.

La scuola vive dentro l’ospedale ma si potrebbe anche affermare che l’ospedale rivive dentro la scuola, perché il giovane ricoverato esce dallo status di «paziente» per cercare, affiancato dai suoi insegnanti, di dare un senso alla sua esperienza di malattia e di guarigione. L’esame medico invasivo, l’intervento chirurgico programmato, la terapia, la paura del medico, l’invidia per i compagni che possono giocare all’aperto: tutto questo viene rivissuto non in una relazione psicoterapeutica ma in un rapporto educativo con un insegnante. Chissà come il lockdown avrà influito su queste dimensioni: anche per capire ciò è fondamentale che la scuola in ospedale riattivi immediatamente il suo lavoro.

La scuola in ospedale è scuola a tutti gli effetti. Non si tratta di «fingere di essere a scuola» ma di esserci davvero, capendo che la scuola, prima di essere una costruzione architettonica, è uno spazio del cuore e dell’anima. Il continuo confronto collegiale tra gli insegnanti di un reparto, che appartengono al collegio dei docenti della scuola capofila, permette di esportare le esperienze compiute in ospedale facendo in modo che pongano domande alla scuola «tradizionale» e che a sua volta questa si interroghi sul proprio modo di fare scuola. Nel momento del reinserimento del bambino o del ragazzo guariti, la scuola di provenienza accoglie lo studente, valorizzando il percorso svolto in ospedale come reale esperienza di crescita e di apprendimento anche dal punto di vista dei contenuti; perché in ospedale si impara la matematica e la geografia, e questo punto non sarà mai sottolineato abbastanza. Una istituzione straordinaria, dunque, che vive in modo felice e proficuo laddove c’è la collaborazione del personale medico e sanitario, che si convince che il «fare scuola» quotidiano ha effetti terapeutici e non solo pedagogici.

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