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SCUOLA/ Invalsi, le colpe delle élite spiegano il “mistero” del Sud

Rispetto al Nord Italia, le scuole del Sud mostrano risultati peggiori nelle prove Invalsi e Pisa. Le eccellenze ci sono, ma separate socialmente, per preservare lo status

22/01/2020
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Il Sussidiario.net

Tiziana Pedrizzi

Dobbiamo essere grati a lavoce.info che, contrariamente ad altri ambienti accademici di studi economici, non si dimentica della scuola. Nella sua ultima uscita due contributi tornano sul tema della scuola del Meridione, argomentando ampiamente con documentazione statistica sulle differenze fra i risultati del Nord Italia e quelli del Sud, differenze che in seconda elementare sono quasi inesistenti e che diventano un burrone al termine della scuola superiore.

Interessante anche il riconoscimento dell’esistenza di due Sud, quello tirrenico e quello adriatico, sia in termini di risultati assoluti che di differenze interne, su cui su questo giornale si è da tempo argomentato.

Parlare dello iato fra risultati degli allievi del Sud nelle prove standardizzate Invalsi e Pisa (che viaggiano in piena consonanza) e i voti della maturità sembra oramai come sparare sulla Croce Rossa. Vale la pena invece soffermarsi sulle reazioni.

Dopo un primo periodo di contrasto, e in alcune zone periodi di sabotaggio, l’atteggiamento più diffuso oggi nelle scuole sta forse diventando quello della rassegnazione e dell’indifferenza. Soprattutto visto che sembra sventato il rischio che le prove Invalsi inserite nell’esame di Stato potessero calmierare i voti e poiché la blanda valutazione del Servizio nazionale di valutazione in corso con molta lentezza nelle scuole non attribuisce grande valore a cattivi risultati né prevede alcuna sanzione. Salvo, poi, accorrere in massa a plebiscitare i parlamentari dei 5 Stelle che hanno cercato in questo primo scorcio di legislatura di azzoppare in tutti i modi l’Invalsi.

Ma esiste un settore professionale e sociale che contesta ragionamenti anche fondati su dati inoppugnabili, utilizzando sostanzialmente l’accusa di political uncorrectness, in ultima analisi di razzismo verso il Sud. Sono i giovani brillanti che vengono dal Sud, che ottengono buoni risultati nello studio (spesso nelle università del Nord) e riescono ad arrivare a posti importanti non solo, come è tradizione, nella pubblica amministrazione italiana, ma ora anche nel privato e all’estero, non solo in posti di potere, ma anche di studio e ricerca. E che si dimostrano meno recalcitranti di quelli del Nord a uscire dal bozzolo protetto delle loro piccole patrie: il Veneto, di ottimo livello formativo, ma poco presente nell’agone nazionale, ne è un chiaro esempio.

Non ci sono dati in proposito, ma a livello impressionistico si può dire che si tratti di un fenomeno reale. I dati citati da Tito Boeri ci danno uno scorcio in proposito: le scuole del Sud con il miglior punteggio presentano differenze molto più contenute con le loro equivalenti del Nord di quelle rilevabili nel complesso delle scuole tutte, e soprattutto in quelle dei livelli bassi.

Sembra sempre meno convincente una spiegazione del divario in chiave prettamente economica. Non si tratta certo di minori risorse a disposizione della scuola: gli stipendi sono uguali a quelli del Nord, potendo contare su un maggiore potere di acquisto, e gli insegnanti godono di fondi europei aggiuntivi a disposizione per attività che peraltro finora si sono dimostrate del tutto inutili a innalzare i livelli di apprendimento.

Quanto al fatto che l’arretratezza scolastica sarebbe un indicatore dello stato complessivo di arretratezza culturale occorre iniziare a fare dei bei distinguo. Alcuni elementi dovrebbero farci riflettere: il Sud ha una lunga storia culturale, ha avuto nelle sue ristrette élite intellettuali e politici di vaglia con un ruolo anche nazionale, e anche oggi esprime nel bene e nel male una parte significativa della classe dirigente.

Ma i dati dimostrano che nel Sud la polarizzazione sociale e cognitiva è molto alta, sia fra i licei e gli altri tipi di scuola (pochi) con finalità professionalizzante, sia fra le classi di uno stesso istituto. Si tratta di una situazione molto diffusa nei paesi di minore sviluppo sociale e culturale, in particolare nel Sudamerica.

L’esistenza di una classe privilegiata che cerca e incrementa le occasioni di sviluppo scolastico in chiave di segregazione – le primine, le sezioni A, i licei del centro, l’università al Nord – si accompagna alla rinuncia a un’effettiva scolarizzazione delle fasce meno privilegiate culturalmente e socialmente, spesso per un atteggiamento paternalistico e lassista (misurare il percorso e non gli esiti, etc.).

L’atteggiamento delle famiglie è infatti polarizzato: le famiglie di ceto medio e piccolo borghese nutrono un’alta considerazione della cultura e della scuola come mezzo di promozione sociale, superiore a quella delle famiglie della parte Nord del paese, che spesso privilegiano il privato e le attività a diretta finalità economica.

È da quelle famiglie che vengono i giovani brillanti del Sud che si ribellano alle stimmate che i dati implacabilmente infliggono alla scuola che li ha formati, i cui limiti hanno superato sia attraverso la disponibilità a spostarsi – anche perché non accettano i difetti e i limiti della società da cui provengono -, sia attraverso una capacità di relazioni e di auto-espressione superiore a quella dei coetanei del Nord.

Forse, dunque, una spiegazione del mistero del Sud bisogna cercarla nell’abisso fra una cultura alta, tradizionalmente umanistica, tendenzialmente astratta, riservata alle élites e l’incultura, o meglio la subcultura, della “plebe”. E nel compiaciuto atteggiamento paternalistico delle élite stesse.

Un esempio. Gian Antonio Stella scrive su Corriere Sette un obituary su Francesco Durante, “una penna elegantissima”, traduttore in Italia di John Fante e Bret Easton Ellis, che definisce un anglosassone nato a Napoli. A riprova, viene in apertura di articolo citato un suo pezzo “di centoventi righe spassose ma raffinatissime” apparso sul Corriere del Mezzogiorno, in cui, prendendo le mosse da un “testo pieno di strafalcioni” apparso su un portone del centro storico nel merito della chiusura dell’ascensore, “come un entomologo davanti ad una nuova farfalla dalle preziose sfumature”, ne chiosa uno per uno gli svarioni, arrivando a parlare a proposito di una frase sgrammaticatissima di “un ben tornito endecasillabo, epperò di una specie assai raffinata, tutto intessuto com’è di effetti di allitterazione e di paronomasia”. Si tratterebbe del “manifesto di uno dei tratti più commoventi di Napoli e della sua gente” che consisterebbe “in una certa tetragona volontà di resistenza alla omologazione”, “una vistosa eccezione nel mondo occidentale”.

C’è da dire di più? Ha già detto tutto Vincenzo Cuoco a proposito della tragica fine della borghesia illuminista napoletana per mano del sanfedismo popolare nella Repubblica Partenopea del 1799: “La nazione napoletana era come divisa in due popoli diversi … cosicché la cultura di pochi non aveva giovato alla nazione intera e questa a vicenda quasi disprezzava una cultura che non le era utile e che non intendeva”.