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Scuole, Il calo demografico È un'opportunità per migliorare la qualità dell'istruzione

Andrea Gavosto

03/09/2019
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La Stampa

Andrea Gavosto

E' bene che i media, l'opinione pubblica e naturalmente la politica comincino a preoccuparsi della grande diminuzione degli studenti che sta avvenendo in Italia e delle sue conseguenze per il futuro del Paese. In effetti, da quando 18 mesi fa la Fondazione Agnelli lanciò l'allarme, il tema non ha conquistato ancora l'attenzione che merita, a parte le reazioni dei sindacati della scuola, preoccupati per la possibile contrazione del numero dei docenti.
Il nuovo anno scolastico non è ancora iniziato, ma già sappiamo che rispetto al precedente mancheranno all'appello circa 23.000 allievi alle primarie e 20.000 alle secondarie. Nei prossimi anni il calo è destinato ad accentuarsi: le proiezioni dell'Istat, rigorose e affidabili, prevedono per il 2030 un milione e centomila studenti in meno, corrispondenti a una riduzione di circa 45.000 classi. Sono le curve inesorabilmente declinanti della demografia italiana: figlie di una perdurante bassa fecondità, non più compensata dai flussi di immigrazione. In nessun altro paese dell'area Ocse vi è una contrazione così drastica della popolazione giovanile, con tutto quel che ne consegue sulle prospettive di sviluppo e di innovazione. La situazione è ancora più grave nelle regioni del Sud, dove il declino è iniziato da più tempo. 
Un problema molto serio. Ma forse anche un'opportunità per la scuola. Un minor numero di alunni comporta una minore necessità di insegnanti: secondo le nostre stime, di qui al 2030 saranno oltre 60.000 le cattedre in meno in tutti i gradi di scuola, a partire ovviamente dall'infanzia e le primarie. Non a caso, nel decidere il numero di assunzioni per questo anno scolastico, il Ministero dell'economia ha ridimensionato le richieste del Miur, proprio con l'argomento della riduzione della popolazione scolastica. Nulla di cui scandalizzarsi: è giusto che il governo valuti con attenzione dove investire le risorse pubbliche, sottraendone se in eccesso per spostarle su impieghi più urgenti (compresa la riduzione del deficit pubblico). Si può stimare che la diminuzione degli studenti determinerà una minor spesa per la scuola di oltre 2 miliardi di euro all'anno, pari al 5% del totale: una cifra di tutto rispetto, tenuto conto che se ne dovranno trovarne almeno 24 per rispettare gli impegni europei.
Se, però, si decidesse che questi soldi devono rimanere nella scuola, allora - detto in modo semplice - si potrebbe finalmente affrontare il tema della sua qualità. Avremo meno studenti, ma potremo offrir loro una scuola migliore. 
Due sarebbero, a mio avviso, le linee d'azione, avendo più risorse a disposizione.
La prima è l'investimento in edilizia scolastica: la maggior parte degli edifici risale a molto prima degli anni Ottanta e, come per molte infrastrutture pubbliche, c'è un problema di deterioramento. Una manutenzione straordinaria delle nostre scuole è urgente: non possiamo aspettare la prossima disgrazia.
La seconda è l'allungamento del tempo scuola. Oggi il tempo pieno è realtà quasi solo nelle scuole primarie del Nord; ma sappiamo che più ore di scuola servono a far imparare di più e meglio, a combattere l'abbandono scolastico, purtroppo di nuovo in crescita, a stemperare le differenze di origine sociale e, soprattutto, a rinnovare la didattica. Ripensare gli ambienti scolastici e aumentare le ore, senza modificare come si insegna, serve infatti a poco. Purtroppo sappiamo che qui la scuola italiana è in ritardo, sia per l'età avanzata di molti docenti sia per la poca disponibilità a cambiare metodi di insegnamento consolidati, come la lezione frontale (che tanto piacciono ai troppi laudatores temporis acti). Perché il calo demografico si trasformi in un'opportunità per la scuola, occorre dunque formare (o riformare) docenti nuovi, dando loro maggiore ricchezza di strumenti didattici con i quali trovare nuove strade per appassionare i ragazzi. —
*Direttore della Fondazione Agnelli
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È bene che i media, l'opinione pubblica e naturalmente la politica comincino a preoccuparsi della grande diminuzione degli studenti che sta avvenendo in Italia e delle sue conseguenze per il futuro del Paese. In effetti, da quando 18 mesi fa la Fondazione Agnelli lanciò l'allarme, il tema non ha conquistato ancora l'attenzione che merita, a parte le reazioni dei sindacati della scuola, preoccupati per la possibile contrazione del numero dei docenti.
Il nuovo anno scolastico non è ancora iniziato, ma già sappiamo che rispetto al precedente mancheranno all'appello circa 23.000 allievi alle primarie e 20.000 alle secondarie. Nei prossimi anni il calo è destinato ad accentuarsi: le proiezioni dell'Istat, rigorose e affidabili, prevedono per il 2030 un milione e centomila studenti in meno, corrispondenti a una riduzione di circa 45.000 classi. Sono le curve inesorabilmente declinanti della demografia italiana: figlie di una perdurante bassa fecondità, non più compensata dai flussi di immigrazione. In nessun altro paese dell'area Ocse vi è una contrazione così drastica della popolazione giovanile, con tutto quel che ne consegue sulle prospettive di sviluppo e di innovazione. La situazione è ancora più grave nelle regioni del Sud, dove il declino è iniziato da più tempo. 
Un problema molto serio. Ma forse anche un'opportunità per la scuola. Un minor numero di alunni comporta una minore necessità di insegnanti: secondo le nostre stime, di qui al 2030 saranno oltre 60.000 le cattedre in meno in tutti i gradi di scuola, a partire ovviamente dall'infanzia e le primarie. Non a caso, nel decidere il numero di assunzioni per questo anno scolastico, il Ministero dell'economia ha ridimensionato le richieste del Miur, proprio con l'argomento della riduzione della popolazione scolastica. Nulla di cui scandalizzarsi: è giusto che il governo valuti con attenzione dove investire le risorse pubbliche, sottraendone se in eccesso per spostarle su impieghi più urgenti (compresa la riduzione del deficit pubblico). Si può stimare che la diminuzione degli studenti determinerà una minor spesa per la scuola di oltre 2 miliardi di euro all'anno, pari al 5% del totale: una cifra di tutto rispetto, tenuto conto che se ne dovranno trovarne almeno 24 per rispettare gli impegni europei.
Se, però, si decidesse che questi soldi devono rimanere nella scuola, allora - detto in modo semplice - si potrebbe finalmente affrontare il tema della sua qualità. Avremo meno studenti, ma potremo offrir loro una scuola migliore. 
Due sarebbero, a mio avviso, le linee d'azione, avendo più risorse a disposizione.
La prima è l'investimento in edilizia scolastica: la maggior parte degli edifici risale a molto prima degli anni Ottanta e, come per molte infrastrutture pubbliche, c'è un problema di deterioramento. Una manutenzione straordinaria delle nostre scuole è urgente: non possiamo aspettare la prossima disgrazia.
La seconda è l'allungamento del tempo scuola. Oggi il tempo pieno è realtà quasi solo nelle scuole primarie del Nord; ma sappiamo che più ore di scuola servono a far imparare di più e meglio, a combattere l'abbandono scolastico, purtroppo di nuovo in crescita, a stemperare le differenze di origine sociale e, soprattutto, a rinnovare la didattica. Ripensare gli ambienti scolastici e aumentare le ore, senza modificare come si insegna, serve infatti a poco. Purtroppo sappiamo che qui la scuola italiana è in ritardo, sia per l'età avanzata di molti docenti sia per la poca disponibilità a cambiare metodi di insegnamento consolidati, come la lezione frontale (che tanto piacciono ai troppi laudatores temporis acti). Perché il calo demografico si trasformi in un'opportunità per la scuola, occorre dunque formare (o riformare) docenti nuovi, dando loro maggiore ricchezza di strumenti didattici con i quali trovare nuove strade per appassionare i ragazzi. —
*Direttore della Fondazione Agnelli