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Se gli algoritmi a Scuola uccidono il pensiero analitico

25/05/2017
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ROARS

Alberto Berretti

Perché in un compito di analisi matematica gli studenti sono tipicamente in grado di calcolare le derivate ma vanno in crisi di fronte ad un limite? Questo accade perché sempre più spesso vengono addestrati a risolvere i problemi in termini di “pattern matching”. Davanti a un problema si cerca nella memoria un caso simile per poter applicare meccanicamente qualche regola standard. Ma così non si va molto lontano. Per risolvere i veri problemi, anche nella vita di tutti i giorni, quello che serve è il pensiero analitico, non quello meccanico. Una verità che negli anni recenti è stata offuscata dalla contrapposizione tra conoscenze e competenze, come se fosse possibile essere competenti in qualcosa che non ci conosce a fondo. Ripubblichiamo in forma abbreviata un post di Alberto Berretti apparso su agendadigitale.eu.

Link all’articolo completo: Se gli algoritmi a Scuola uccidono il pensiero analitico

Vengo dalla correzione dei compiti di due appelli di Analisi Matematica 1 ad Ingegneria, andati ap­parentemente peggio del solito, nonostante un compito abbastanza facile e costituito da esercizi quasi identici a quelli fatti in aula. E ritrovandomi a dire, da un po’ di tempo a questa parte, ogni anno la stessa cosa, mi faccio delle domande.

[…]

Ora parlerò – e me ne dispiace – usando un minimo di terminologia matematica. Capire di che si tratta non è essenziale, anche se aiuta.

Dunque, come è andata e perché dico che è andata peggio del solito? Un disastro sui limiti, ma tutti sanno fare le derivate. Saper fare le derivate è una cosa che crocianamente potremmo definire mec­canica: hai delle regole  – poche  -, le impari, le applichi, calcoli la tua derivata, fine della storia. Ma­gari devi faticare un po’ per fare i conti giusti, ma tutto lì. Tant’è che un esercizio per studenti di in­formatica di un certo livello che imparano un certo tipo di linguaggi di programmazione è spesso quello di scrivere un programma che fa la derivata di una funzione data: è facile insegnare ad un computer come si fanno le derivate!

Ma la derivata è un limite, non esiste una teoria delle derivate senza una teoria dei limiti. I limiti li hanno inventati esattamente perché servivano per definire le derivate. Ma la maggior parte dei ra­gazzi non sa fare un limite. Limiti semplici, che però esulano dai pochi metodi banali e  –  diciamolo –  meccanici tipicamente imparati  – appunto! – meccanicamente alle superiori. Non appena serve una strategia, non appena devono fare un conto che deve andare in una certa direzione e non in un’altra, un conto che non puoi fare tutto in un solo boccone, non appena devono capire come ap­procciare il problema, come conviene iniziare, da quale parte prenderlo, insomma quando devono  pensare, li attende, molto spesso e con poche eccezioni, il fallimento.

La forma di pensiero prevalente tra gli studenti che mi capitano negli ultimi anni è quella analogica, basata sul pattern matching: vedi un problema e senza necessariamente capire di cosa si tratta, cer­chi di ricordarti a cosa somiglia che tu abbia già visto. A questo punto tenti di applicare la medesima tecnica – appunto  meccanicamente – ignorando completamente però il meccanismo: perché il ragio­namento basato sul pattern matching, alla fine, è si meccanico, ma ignora la meccanica dei proble­mi.

[…]

Sfido chiunque a dirmi che questo “non serve”. Questo modo di ragionare servirebbe anche a coloro che non hanno mai a che fare con cose matematiche. Questo è il modo in cui ragioni quando ap­procci qualunque problema in una situazione non banale e devi essere un minimo – dico un minimo – creativo.

[…]

E c’è tutto un altro ordine di ragionamenti molto importante. Serve la competenza, o la conoscenza? Che dire, ho sentito tutta una serie di insegnanti, didatti e dirigenti scolastici (15 anni di consiglio di istituto in due scuole come genitore non sono passati invano) parlare della “scuola delle competen­ze” contrapposta alla “scuola delle conoscenze”, il “saper fare”, e così via. In quanti POF ne ho sen­tito parlare (cos’è un POF? POF-ferbacco, un Piano dell’Offerta Formativa, un rito annuale dei Consigli di Istituto, ora ha cambiato nome in seguito all’ennesima riforma, mi son dimenticato come si chiama ora). Ho tentato di leggere, recentemente, pubblicazioni in riviste didattiche per in­segnanti per capire di cosa davvero si tratterebbe: non ci sono riuscito, complice forse la mia forma­zione fisico-matematica per la quale prima di parlare di qualcosa si deve avere ben chiaro di cosa si stia parlando (l’importanza di definizioni precise!).

La mia sensazione, detto in modo grezzo e bru­tale, detto come molti insegnanti in prima fila in classe pensano, ma non osano dire, è che si tratti di un mucchio di banalità. Qualcuno dovrebbe avere la cortesia di spiegarmi come si fa ad essere com­petenti in qualcosa che non si conosce a fondo. E a cosa serve conoscere se non si sa far nulla. Mai dicotomia è stata, direi, più inutile, e se, formulando opportunamente i concetti, ci fosse qualcosa di serio e profondo da dire sull’argomento, dubito che non sia stato detto e probabilmente stradetto in millenni di storia del pensiero filosofico (perché la reinvenzione filosofica dell’acqua calda sembra essere un atteggiamento molto comune oggi).

“Ma alle aziende serve la competenza specifica in questo e quest’altro”. Sicuramente, ma anche no. Ovvio che se sei un’azienda di meccanica e ti serve un tornitore, ti serve un tornitore che sappia usare il tornio. E così via. Ma c’è anche un altro livello: il tornitore dovrebbe non solo saper usare il tornio, ma anche imparare ad usare le nuove macchine man mano che escono. Altrimenti avremo una forza lavoro spiazzata dalla prima innovazione tecnologica.

Si confonde spesso, peraltro, addestramento, formazione e istruzione. Sono cose diverse che servo­no a far cose diverse. Abbiamo un Ministero della Pubblica Istruzione, non della Pubblica Forma­zione o del Pubblico Addestramento. Se si usano tre parole diverse per dire delle cose, saranno mol­to probabilmente tre cose diverse.

[…]

Quello che dovremmo iniziare a chiederci è cos’è successo negli ultimi dieci anni per ritrovarci in queste condizioni, se non vogliamo del ritornar vantarci e chiamarlo procedere inseguendo elabora­zioni teoriche separate dalla pratica dell’insegnamento.

(articolo già apparso su agendadigitale.eu)