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Lo studio dell’energia e dell’ambiente rimangono ai margini

All’ordine del giorno finalmente il nuovo modello di sviluppo. Ma non sono più sufficienti misure di contenimento. Dopo anni di negazionismo, anche grazie ai movimenti giovanili e alle evidenze scientifiche, la transizione ecologica è divenuta centrale. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, seppure molto incentrato sui temi green, conserva alcune incertezze e lacune. Ecco quali.

05/06/2021
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Collettiva.it

I termini “ricerca” e “green” (molti i sinonimi usati) sono stati negli ultimi anni fra quelli più diffusi, spesso impiegati giustamente in associazione fra loro, in quanto sottintendono ambedue una proiezione verso un cambiamento. Infatti, in riferimento alla riconosciuta emergenza climatica, un reale ed ambizioso processo di decarbonizzazione non può riferirsi più a singoli provvedimenti di tutela ambientale, ma deve necessariamente prefigurare, in una logica sistemica, un vero e proprio nuovo modello di sviluppo. Non sono, quindi, più sufficienti misure di contenimento che si assumono via via per cercare di rispettare i target delle emissioni definiti a livello europeo. Dopo anni di negazionismo, anche grazie all’irruzione nella scena mondiale di movimenti giovanili e alle incontrovertibili evidenze provenienti dal mondo scientifico, la transizione ecologica è divenuta centrale nell’agenda politica. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, programmato come ripartenza dalla grave emergenza sanitaria, assegna proprio alla transizione ecologica uno dei capitoli più importanti. In realtà, questa priorità green, a livello europeo era stata già assunta ben prima dell’attuale Pnrr. Già a fine del 2019, mettendo in discussione decennali politiche di bilancio e di austerità, la Commissione europea, anche in relazione alla stagnazione europea, aveva messo in Campo l’ambizioso progetto decennale del New Green Deal, che avrebbe dovuto indirizzare politiche pubbliche verso nuovi modelli di sostenibilità, intesa come ambientale, produttiva, sociale, culturale. Si prefigurava, così, decisamente una netta relazione tra sostenibilità e innovazione, quindi anche della ricerca. Un legame che nel nostro paese è tuttavia ancora ben lungi dall’essere opportunamente considerato. 

Appare evidente come l’input ineludibile di una completa decarbonizzazione entro il 2050 comporti necessariamente una nuova politica energetica, di innovazione nei processi produttivi anche con la creazione di nuove filiere, di interventi di riqualificazione delle città e dei territori, di nuove logiche nei consumi a partire dall’alimentazione. Non è vero, quindi, che un nuovo modello si sostenibilità determini solo divieti ambientali, ostruzionistici della produzione. È un processo che prevede una innovazione complessiva, sempre più anche per le imprese indispensabile negli scenari internazionali, nonché portatrice di nuova occupazione sicuramente di qualità. Paradossalmente, tuttavia, è proprio questo assioma sistemico che è anche all’origine di tutte le resistenze e i rallentamenti ai processi di sostenibilità. Infatti, se vi è una condivisone generale dell’obiettivo finale, in realtà poi essa viene di fatto contraddetta e compromessa. Infatti, invece di attivarsi coerentemente da subito in un percorso particolarmente complesso, gli ex-negazionisti sollecitano una diluizione temporale degli impegni al fine di tutelare interessi contingenti.

Il Pnrr, il fondo principale del programma europeo Next Generation EU, mette in campo risorse non indifferenti nelle sei Missioni previste. Proprio la Missione 2 (Rivoluzione verde e transizione ecologica) ne prevede ben il 30% sul totale delle sei Missioni. Inoltre vi è l’input anche di una trasversalità tra le missioni, cosicché gli interventi sul green non possono essere inferiori al 37% del totale di tutto il Pnrr. Positiva, poi, la pregiudiziale europea che gli interventi Pnrr comunque non possono creare danni all’ambiente (Do No Harm), anche se difficile appare una verifica in proposito con il testo redatto. Insomma le premesse di partenza sicuramente erano incoraggianti. Già a partire da questi dati, inediti da decenni nelle politiche del nostro paese, possiamo vedere le potenzialità di questi interventi di finanziamento.

Potenzialità che non possono essere lasciate indebolire senza potenziare una critica di merito. Infatti, emergono anche le prime incertezze nelle valutazioni sul Pnrr. In primo luogo non si evince, mancando una tabella delle singole voci, se sia stata rispettata la coerenza green di almeno il 37% sul totale delle missioni. Non solo, ma le risorse della missione 2 sono indirizzate in molte voci che sembrano interessare più un miglioramento dell’esistente che verso un cambiamento. Pensiamo solo, per esempio, al complesso delle fonti alternative laddove si evidenzia solo una modesta crescita,anziché un’accelerazione con un cambio di passo. Nell’economia circolare si resta in una riduttiva visione. Nulla su impianti sperimentali per recuperi complessi, né sul prolungamento del ciclo di vita dei prodotti. Non si prospetta ancora quell’Agenzia Nazionale per l’Economia Circolare, che avrebbe già disponibili le competenze in Enea, senza perciò inventare nuovi apparati, per assicurare l’intervento nei territori in modo coordinato con chiari indicatori di circolarità, in sintonia con le direttive europee.

Nei prossimi anni con l’inserimento di consistenti flussi di domanda il paese ritroverà un Pil positivo, ma al termine di questo quinquennio il paese, col ritorno di una normalità finanziaria, anche debitoria, il paese sarà già all’interno delle nuove sfide tecnologiche o si capirà di aver sciupato questa opportunità? In sostanza emerge che al termine stesso di “transizione” si dà ormai un significato diverso. Da una parte, infatti, si è ormai d’accordo sugli obiettivi strategici da raggiungere, quindi per molti appare evidente come occorra costruire sin da subito le fondamenta di questo percorso, cogliendo nella necessaria riorganizzazione produttiva anche opportunità di crescita. Per altri, specie le lobby del fossile, la transizione viene sì considerata, ma con una diluizione temporale del programma complessivo, come la necessità di prendere altro tempo, come se la transizione fosse un intermezzo, non appunto un processo da percorrere. D’altra parte, si afferma, gli obiettivi da raggiungere sono ancora lontani nel tempo, il processo più che accelerarlo è preferibile che esso rallenti per evitare scossoni negli equilibri industriali esistenti. Lo ha sostenuto lo stesso Ministro Cingolani, laddove ha affermato che si è ormai d’accordo sul fatto che siamo oggi al punto A e che dovremo raggiungere quello B, nel 2050, ma appunto le divergenze sono sui tempi del percorso, laddove si tratta di salvaguardare e conciliare interessi contrapposti, e una maggiore diluizione dei tempi appare una soluzione ragionevole, con la promessa di recuperi successivi. Insomma la riorganizzazione produttiva viene vista come un pericoloso salto nel buio, anziché una opportunità di crescita.

Poi, per giustificare una debolezza sulle fonti alternative, si è citata di continuo la Fusione nucleare come vera panacea energetica. Parliamo di una linea ricerca strategica ormai di carattere mondiale e che vede per l’Italia proprio l’Enea in prima fila. Ma si è omesso di dire che i grandi progetti sperimentali mondiali (Cadarache -Francia) prevedono l’ipotesi di un primo reattore nel 2050 e quindi parliamo al momento di una linea scientifica, ma non di una risposta alla decarbonizzazione. Inoltre siamo all’assurdo, e cioè che un impianto sperimentale italiano (Ddt) propedeutico a quello mondiale (Iter) prevede un impegno per 15 anni di 500 milioni circa, ma oltre la metà di questi è finanziata da un prestito fatto a carico dell’Enea. Insomma per la prima volta in Italia un esperimento viene pagato dai dipendenti stessi. Se un ministro oltre che incensare una linea di ricerca la finanziasse sarebbe più coerente.

Con queste considerazioni si diffonde un senso di delusione e di preoccupazione sulle scelte green del Pnrr. Qualcuno parla di scarso coraggio, altri di verde pallido, altri finanche di greenwashing (verde di facciata, solo per gli effetti della comunicazione). In realtà gli obiettivi del Pnrr sulla missione 2 non sono nemmeno coerenti con gli obiettivi previsti per la riduzione delle emissioni per il 2030. Tuttavia ci sono ancora molti margini all’interno del Pnrr Missione 2 per richiedere più lungimiranza, in quanto molti aspetti hanno una esposizione non dettagliata. Gli stessi obiettivi Pnrr dovranno incrociarsi con altre due scadenze decisive. La prima è la COP26, in novembre a Glasgow, preceduta dal G20, laddove ci si aspetta un impulso ambizioso agli obiettivi di decarbonizzazione e di innovazione. Ma anche la revisione del nostro Pniec (Piano Nazionale Energia e Clima) a fine anno dovrà essere rimodulato. Peraltro si dimentica che la sostenibilità può divenire anche una delle leve per attenuare gli squilibri territoriali nel mezzogiorno.

Ma la debolezza del Pnrr deriva dal fatto che l’Italia si trova ad affrontare non solo una emergenza climatica. Infatti un nuovo modello energetico appare comunque essenziale anche in relazione ad una dipendenza energetica, da cui deriva un costo più alto dell’energia per imprese e famiglie. Una dipendenza energetica che le industrie del fossile non sono riuscite in decenni minimamente ad intaccare. Ma vi sono dei rischi anche di dipendenza tecnologica, laddove a livello internazionale si prefigurano investimenti notevoli proprio su questo versante strategico. In sostanza un processo di sostenibilità credibile deve essere affiancato anche da una crescita della capacità tecnologica sia nella ricerca,sia nelle filiere industriali. Fa impressione, invece, come sia completamente assente nel Pnrr Missione 2 qualsiasi ruolo da assegnare alla ricerca.

A fronte del fatto che per gli enti di ricerca afferenti dal Mur (Istruzione e Ricerca) si prefigurano nella Missione 4, pur in presenza di molteplici osservazioni, stanziamenti consistenti e anche possibilità occupazionali e di borse per giovani laureati, nulla viene prefigurato dal Mite, proprio dal costituito ministero della Transizione ecologica da cui ci sia attendeva un salto di attenzione per il proprio ente vigilato Enea, il secondo ente di ricerca italiano. Dal 2016 grazie ad un impegno che ha visto impegnata anche la Cgil confederale al massimo livello, l’ente ha riacquistato a livello legislativo un ruolo di rilievo con una mission innovativa: “Ricerca e innovazione tecnologica per l’Energia, l’Ambiente, lo Sviluppo Sostenibile”. Una decisione che si è dimostrata nel tempo lungimirante, anche se non è stata accompagnata, tuttavia, da alcuna risorsa per assolvere pienamente i nuovi compiti affidati. Ci si attendeva dal costituendo Mite dei primi segnali di rilancio. Sicuramente i lavoratori dell’Enea saranno nei prossimi mesi impegnati a sollecitare proprio all’interno dell’applicazione del Pnrr una attenzione verso programmi di ricerca incisivi e finanziati. L’Enea ha una dotazione organica di 2.900 unità, ma solo teorica, in realtà per assenza di risorse ci si attesta al momento a circa 2.400, senza avere la possibilità, per carenze finanziarie, di coprire l’intero turnover. L’età media pertanto è molto alta, 52 anni, e nella ricerca il ricorso a giovani è essenziale. La realtà è che l’ENEA subì all’epoca del tentativo di ritorno al nucleare (2011) un taglio draconiano che doveva preludere ad un ridimensionamento dell’ente, poi scongiurato. Un taglio di quasi un quarto del bilancio, mai reintegrato. Così l’Enea si ritrova ad avere il contributo statale a solo 140 milioni, mentre le spese del personale sono di 200 milioni. Nel silenzio generale l’Enea è l’unico ente pubblico a cui non vengono assicurati gli stipendi. Si sopravvive da anni grazie ad una notevole capacità tecnica scientifica, cercando di assicurarsi anche a livello internazionale progetti, le cui entrate sopperiscono più per stipendi che per attività di laboratorio. Non solo, ma mantenendosi con progetti, questi, con la parziale chiusura dei laboratori, con il Covid sono stati rallentati e così le entrate per il 2021 risultano inferiori di 20 milioni, senza che nessuno abbia parlato di ristori per le attività di ricerca, a fronte di decine di miliardi assicurate ad aziende e alle attività più disparate. Insomma parte la transizione ecologica, ma il più grande ente di ricerca per l’energia e sostenibilità resta in situazioni precarie. Il Pnrr prevede 59 miliardi nella Missione 2 della transizione ecologica. Si troveranno almeno le risorse per gli stipendi dei ricercatori e tecnici dell’Enea?

Carlo Buttarelli è coordinatore nazionale Enea per la FLC CGIL