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Sui banchi a lezione di smartphone

a scuola non può più far finta che cellulari e smartphone non esistano, non captino l’attenzione in modo anche morboso, non costituiscano il canale di socialità, informazione e anche apprendimento più comune, e non solo per i piccini

19/01/2018
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la Repubblica

Stefano Bartezzaghi

Alla popolarità del binomio costituito da «telefonino» e «scuola» non contribuisce certo la cronaca recente, e dolorosissima. Ma è proprio la gravità di quest’ultima che, alla fine dei conti, porta l’argomento decisivo: la scuola non può più far finta che cellulari e smartphone non esistano, non captino l’attenzione in modo anche morboso, non costituiscano il canale di socialità, informazione e anche apprendimento più comune, e non solo per i piccini. Se non tutto, di lì passa di tutto. A escluderli da sé, la scuola rischia di escludere sé dalla vita reale dei ragazzi.

Quando si è cominciato a parlarne, nello scorso luglio, sembrava una delle solite boutade con cui ministri (e ministre) finiscono volentieri sui giornali estivi. «Telefonini a scuola»: un’altra breccia aperta nella muraglia dello studio «serio», e a favore del genitore petulante e invasor. Sono i danni della politica dell’annuncio, la malattia infantilista del governante, e, parlandone ora in piena campagna elettorale, non ci sarà bisogno di sottolinearne la perniciosità né la sua almeno apparente inesorabilità. Dopo due stagioni, e mezzo anno scolastico, esce però dal Ministero dell’Istruzione un documento articolato che contiene anche un decalogo di princìpi generali. Sono le condizioni che devono essere soddisfatte perché l’ammissione del telefonino personale nelle aule scolastiche abbia un senso. Si può cominciare a parlarne davvero, allora.

Il punto è che il telefonino non deve entrare in classe come fa già, cioè come il mazzo di figurine doppie o una qualsiasi altra coperta di Linus nascosta nella cartella. Se la scuola, come tutte le altre agenzie culturali (giornalismo compreso), ha perso autorevolezza, come si può pensare che la recuperi senza accogliere le tecnologie dell’informazione tra i propri strumenti e anche tra i propri argomenti? Le obiezioni possibili si conteggiano a centinaia: abbiamo edifici scolastici in cui il vento può far piovere tegole in testa agli scolari, è plausibile che in tempi utili siano connesse e tecnologicamente attrezzate? (Non si parla «soltanto» di wifi, ma anche di selezione, protezione e sicurezza dell’accesso). Fra il ragazzo con smartphone e tablet aggiornati a ogni compleanno, onomastico e Natale, e il suo compagno di banco di famiglia non ricca e liberale come la si metterà? Come verranno preparati i docenti a tenere lezione anche sul telefonino (come argomento) e con il telefonino (come strumento)? Non sono problemi da poco, e il documento se li pone, inquadrandone le possibili soluzioni in quelle tipiche affermazioni che potranno rivelarsi princìpi generali, o mero wishful thinking (del genere: «lo scopo condiviso è promuovere la crescita di cittadini autonomi e responsabili». Grazie).

Vedremo quale delle due prevarrà. L’importante è però che la finalità dichiarata sia puramente didattica, e questo in entrambi i sensi possibili. Il primo è il telefonino che aiuta ad approfondire lo studio, e non solo a copiare dispense e bignamini di qualità meno che misera. Il secondo è lo studio che aiuta a saper usare il telefonino stesso (e anche a non farne mai un’arma di bullismo e molestia). È per sua natura un dispositivo ibrido, in cui la propria identità pubblica è continuamente confusa con la privata: vedendo come si comportano certi quarantenni, cinquantenni, sessantenni sui social e in privato, prima lo si impara, meglio è.

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Stefano Bartezzaghi è docente di Semiotica e Teorie della creatività alla Iulm (Milano). Dirige il festival “Il senso del ridicolo” a Livorno. Il suo ultimo libro è “Parole in gioco” (Bompiani, 2017)