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Un lavoratore su quattro non ha le competenze adeguate per la mansione che svolge

Il deficit di competenze dei lavoratori italiani è tutto racchiuso in tre numeri: il 6% degli occupati ha conoscenze inferiori rispetto alle mansioni che svolge; il 21% è sotto qualificato; e circa il 35% è impiegato in un settore non correlato ai propri studi.

06/10/2017
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Il Sole 24 Ore

Claudio Tucci

Il deficit di competenze dei lavoratori italiani è tutto racchiuso in tre numeri: il 6% degli occupati ha conoscenze inferiori rispetto alle mansioni che svolge; il 21% è sotto qualificato; e circa il 35% è impiegato in un settore non correlato ai propri studi.Gli esperti parlano di «skills mismatch»; e ieri l'Ocse ha ricordato che si tratta di un fenomeno, purtroppo, «molto diffuso» nel nostro Paese, dove si contano più di 13 milioni di adulti con competenze di “basso livello”.

La fotografia 
Colpa di un sistema di istruzione che per decenni ha fatto un enorme fatica a confrontarsi con il mondo del lavoro (per riequlibrare domanda e offerta di saperi, soprattutto “pratici” - ne è un esempio l'ingenerosa scarsa considerazione riservata alle scuole tecniche e professionali). Ma parte delle responsabilità sono addebitabili anche a una formazione accademica impreparata alle nuove sfide: solo il 25% della popolazione tra i 25 e i 34 anni è infatti laureato (contro una media Ocse del 30% per la stessa fascia d'età); e, soprattutto, i “colletti bianchi” italiani hanno, mediamente, un più basso tasso di competenze (capacità di lettura e competenze matematiche) rispetto ai colleghi in altri paesi (26esimo posto su 29 paesi Ocse, in ambedue i campi).

Le riforme italiane 
Certo, le ultime riforme varate (e implementate) dai governi Renzi e Gentiloni, Jobs act e Buona Scuola, stanno provando a invertire rotta: con la decontribuzione e regole lavoristiche certe per le imprese sono stati creati quasi 850mila posti di lavoro; sono tornati a crescere i contratti a tempo indeterminato e l'apprendistato (compreso quello, semi sconosciuto, a contenuto formativo). L'alternanza, inoltre, dal 2015, è divenuta obbligatoria e quest'anno interessa circa 1,5 milioni di studenti degli ultimi tre anni degli istituti superiori, che adesso dovranno necessariamente svolgere un periodo di formazione “on the job” durante il loro percorso di studi (a giugno 2019 l'alternanza sbarcherà agli esami di Stato).

I nodi sul tappeto 
Il punto è che nonostante una timida ripartenza del mercato del lavoro (e della nostra economia) la produttività ristagna; mentre i salari sono spesso collegati all'età e all'esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale. E ciò rappresenta un disincentivo alla valorizzazione (e all'accrescimento) delle competenze. Senza considerare la situazione ancora difficile per giovani e donne; le differenti performance degli studenti all'interno del Paese (tra gli alunni di Bolzano e quelli della Campania c'è un divario, nell'indagine Pisa, che equivale a più di un anno scolastico); e siamo «l'unico Paese del G7» in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine, semplice esecuzione degli ordini, è più alta di quella che si cimenta in attività più complesse, in cui si mette in gioco la creatività.

Gli interventi auspicabili 
In quest'ottica, ha ragione il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, a sottolineare come la riforma del sistema educativo «sia la strategia di gran lunga più efficace nel lungo termine». E c'è bisogno perciò di continuare sulla strada delle riforme, ha aggiunto il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria. E qui gli interventi suggeriti dall'organizzazione parigina sono chiari: tagliare in maniera permanente il cuneo che grava sui datori (per aumentare la buona occupazione); incentivare i docenti con bonus monetari o promozioni di carriera (per migliorare la qualità dell'insegnamento nei territori); valorizzare l'istruzione tecnica, compresa quella superiore (che crea posti di lavoro); rilanciare politiche attive e misure di conciliazione vita-lavoro (per aiutare disoccupati e famiglie). La sfida, insomma, è abbattere quel muro che ancora divide formazione e mondo del lavoro. Lo hanno già fatto altri paesi (Germania e Nord Europa, in testa) e i risultati (positivi) sono arrivati quasi subito.