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Un paese che ha bisogno di competenze certe

Priorità e programmi

18/08/2018
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Corriere della sera

Severino Salvemini

È sorprendente che di fronte alla improvvisazione verso problemi complessi e al pericoloso dilagare del culto dell’incompetenza, il mondo della scuola e dell’università si sia ritratto ad osservare il fenomeno, senza rivendicare con forza la sua missione educativa. Già in primavera i programmi elettorali delle due forze politiche governative brillavano per l’assenza di temi legati alla conoscenza, che dovrebbero invece essere il costrutto prioritario di una società che vuole determinare il futuro dei propri cittadini e che invece erano relegati in un angolo.

L’Italia — ci dice il Rapporto di conoscenza 2018 dell’Istat — è uno dei Paesi più ignoranti d’Europa, con solo Grecia e Portogallo che ci battono per analfabetismo e il 27esimo Paese di EU27 per percentuale di laureati. Eppure oggi l’ignoranza non è più un tabù, anzi è quasi un vanto e un programma di vita, essendo stato eletto a valore anti-casta. Di fronte alla scienza e alla istruzione il ragionamento è semplice; tutto ruota intorno ad un principio folle: gli esperti hanno fallito, le élite vanno punite, gli specialisti sono da abbattere, i professori arroganti emarginati.

La sintesi del moralismo è questa: meglio incapaci che in mala fede; meglio onesti che responsabili non si sa bene di quale prospettico misfatto. Come scrive Tom Nichols nel suo libro The Death of Experience, l’enorme accesso alla conoscenza offerto da Internet non ha fatto nascere l’alba di un nuovo illuminismo ma «il sorgere di un egualitarismo narcisistico e disinformato», che può sopravanzare il tradizionale sapere consolidato. E allora, oplà: liberiamoci dai soloni che predicano a destra e a manca e sostituiamoli con le persone normali che ci circondano.

È l’inganno della semplificazione, che si compiace di una superficialità spacciata come sentimento del popolo. Si è persa ogni coordinata di saggezza, vituperando ogni giorno la scuola e l’università. Come dice Giovanni Floris, nel suo recente appassionato saggio Ultimo banco, la semplificazione è sdrucciolevole e riduzionistica: senza la scuola non ci sarà mai l’occasione per comprendere le zone grigie, come che femminile non vuol dire necessariamente vezzoso e maschile necessariamente rozzo. È sì vero che le fabbriche della conoscenza non riescono più a fornire come una volta gli strumenti di affermazione collettiva e l’ascensore sociale, ma l’educazione è l’unico vero antidoto al populismo ed è l’unico baluardo per offrire ai giovani modelli positivi di autorità, senza i quali rimangono solo cantieri di disprezzo verso le istituzioni.

L’istruzione non può essere considerata un inutile investimento di tempo e di energia. L’attuale svalutazione della scuola e il tracollo politico vanno di pari passo in un mondo dove chi invoca la complessità viene visto con diffidenza (perché «la gente non capisce») e percepito come noioso nel percorso analitico (mentre oggi predomina solo la battuta fulminante e spettacolare).

Siamo in un Paese che produce poca conoscenza, che la trasmette male e che la dignifica ancora peggio. E invece questo è il problema dei problemi, quello che genera tutti gli altri. Noi abbiamo bisogno di competenze certe, di persone che sanno di cosa parlano, di individui che conoscono quali tasti schiacciare nelle sale di controllo. Non basta l’essere per bene — onestà, onestà, onestà — come criterio per animare l’affidabilità della classe dirigent