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Unità:Gran Bretagna, sì al boicottaggio delle università israeliane

Il potente sindacato dei docenti di atenei vota per la «guerra» ai colleghi che non si pronunciano contro la repressione sui palestinesi. Da Gerusalemme, le reazioni dei pacifisti Yael Dayan e Yaariv Oppenheimer

30/05/2006
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l'Unità

di Umberto De Giovannangeli

Gli insegnanti dei college e delle università britanniche dichiarano «guerra culturale» alle università israeliane. Stavolta non è più il gesto di una sparuta minoranza di professori «radical». Stavolta la rottura consumatasi è generalizzata ed ha il crisma della ufficialità. Il più grande sindacato degli insegnanti dei centri universitari , il Nafthe, che conta 69mila iscritti, ha approvato ieri una mozione per il boicottaggio delle università e delle istituzioni culturali israeliane che non condanneranno pubblicamente le politiche repressive dello Stato ebraico nei Territori palestinesi. I membri del sindacato hanno discusso la mozione nella loro riunione annuale svoltasi a Blackpool, nel nord dell’Inghilterra. Due parti della mozione sono passate per alzata di mano, mentre la terza è andata al voto. I membri del sindacato si asterranno anche dal pubblicare articoli su riviste scientifiche israeliane.
«Ho ricevuto migliaia di email che cercavano di “educarmi” riguardo alla nostra posizione in difesa dei diritti dei palestinesi», rivela Paul Mackney, il segretario generale del sindacato. «Molte email ci rimproverano di minacciare la libertà dei professori israeliani, dimenticando che la libertà dei professori palestinesi è inesistente». Mackney ricorda che dal settembre 2000, data di inizio della seconda Intifada, sono stati uccisi più palestinesi che israeliani; che sono state colpite da proiettili e gravemente danneggiate 185 scuole palestinesi contro una sola israeliana, e che il tasso di disoccupazione è più alto tra i palestinesi «a causa dell’oppressione esercitata dalle forze di occupazione». «Di fronte a tali ingiustizie», prosegue il suo j’accuse Mackney, «la società civile palestinese, incluse le università, ha bisogno di sostegno e di solidarietà come mai in passato, e non rimarrò in silenzio», Mackney ribadisce anche che la mozione non è un atto anti-semiita: «Criticare il governo israeliano non mi rende antisemita - sostiene deciso - non più di quanto il criticare Bush e Blair mi renda anti-anglosassone». Non vuole essere tacciato di antisemitismo, il segretario del Nafthe, ma resta il fatto che la rottura di ogni relazione culturale con le università israeliane segnala un atteggiamento che non ha corrispettivo rispetto alle università dei tanti Paesi i cui regimi polizieschi o teocratici fanno scempio sistematico di diritti individuali e collettivi e considerano la libertà di pensiero e di critica una minaccia mortale. Da contrastare con ogni mezzo. Contro il boicottaggio si sono schierati 600 insegnanti che hanno lanciato una petizione online pubblicata nei giorni scorsi dal quotidiano Guardian. I 600 non chiudono gli occhi di fronte all’occupazione della Cisgiordania né minimizzano le responsabilità dei governanti dello Stato ebraico ma al tempo stesso si dicono convinti che «questo boicottaggio farebbe più male che bene, se lo scopo è quello di rafforzare i movimenti favorevoli alla pace». La decisione assunta dal sindacato britannico provoca rabbia e sconcerto in Israele. A ribellarsi sono innanzitutto le «colombe», coloro che anche nei momenti più duri non hanno mai smesso di battersi per il dialogo. È il caso di Yaariv Oppenheimer, uno dei fondatori di «Peace Now», il movimento pacifista israeliano, oggi parlamentare laburista: «La cultura - dice a l’Unità - è uno strumento di collegamento e non di di divisione. La conoscenza dell’altro da sé è l’antidoto migliore alla demonizzazione che a sua volta produce violenza». Per questo, aggiunge Oppenheimer, «giudico sbagliata e grave la decisione del boicottaggio. Perchè si tratta di una punizione collettiva inflitta a docenti, scienziati, intellettuali molti dei quali non hanno mancato di criticare la politica di chiusura nei confronti del popolo palestinese». Critica nei confronti della decisione assunta dal Nafthe è anche Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan: «Chiudere la porta in faccia alle università del mio Paese - ci dice al telefono - non è certo un contributo alla pace, al di là delle motivazioni che sottendono questa scelta. Il diritto di critica verso la politica del governo israeliano non è solo legittimo ma in molti casi è più che opportuno. Ma cosa c’entrano le università? Perchè devono pagare responsabilità che non hanno? Questo boicottaggio ha il marchio inaccettabile della rappresaglia». «E la rappresaglia culturale - conclude Yael Dayan - a volte è anche più dolorosa di quella materiale».