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Università: invece di abolire le tasse, più soldi al Sud strangolato dal merito

I dipartimenti d’eccellenza del Nord fanno il pieno di fondi. La soluzione? Usare il miliardo e mezzo promesso da Grasso per abolire le tasse universitarie per ristabilire l’unità, la dignità, la fiducia e l’equit

16/01/2018
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Corriere della sera

Stefano Semplici*

Al Presidente Grasso va riconosciuto il merito di aver introdotto il tema dell’università in una campagna elettorale che si preparava ancora una volta a ignorarlo. Penso però che abbia scelto il modo sbagliato. Chi governa ha il dovere di impiegare bene le risorse ottenute facendo pagare le tasse ai cittadini e chi si candida a governare ha il dovere di spiegare come intende farlo, sapendo che non saranno mai sufficienti per realizzare tutto ciò che si vorrebbe. Il bonus degli 80 euro fa certamente piacere a chi lo riceve. Ma con i 9 miliardi spesi per quest’ultimo sarebbe stato possibile finanziare gli interventi contro la povertà per i quali adesso non si trovano i fondi necessari. Io credo che sarebbe stato decisamente meglio utilizzare in questo modo una cifra così importante. E ritengo che sarebbe speso molto male anche il miliardo e mezzo abbondante che Grasso promette all’università se esso dovesse servire semplicemente ad azzerare le «tasse».

Unità

Io partirei piuttosto, per questo come per molti altri temi legati ai fondamentali diritti di cittadinanza, dalla questione dell’unità del paese. Si è conclusa da pochi giorni la competizione per l’attribuzione dei cospicui fondi destinati ai cosiddetti «dipartimenti di eccellenza». L’università di Bologna ha un numero di «premiati» che è pari a quello di tutte le regioni del Sud e delle isole, tolta la Campania, per un totale superiore ai 113 milioni in cinque anni. A Palermo ne andranno poco più di 8. Per molti questa è semplicemente la logica della «meritocrazia»: all’Italia possono bastare cinque o sei «vere» università e poco importa la loro collocazione. Si tratta di una pericolosa semplificazione: una equilibrata distribuzione di strutture formative e di ricerca di alto livello è fondamentale per creare concrete opportunità di sviluppo economico e sociale su tutto il territorio nazionale, senza pretendere per questo che si facciano ovunque le stesse cose nello stesso modo. L’obiettivo principale di una valutazione rigorosa dovrebbe essere quello di individuare e superare le inefficienze e far progredire l’intero sistema e si possono riconoscere le punte di impegno e di qualità senza alimentare l’ossessione di classifiche da scalare con ogni mezzo per sopravvivere. Ai 180 dipartimenti di eccellenza andranno complessivamente 271 milioni l’anno, scavando solchi profondi di conflittualità e rancore anche all’interno dei singoli atenei, dove alcuni potranno assumere, comprare libri e attrezzature e sviluppare progetti, mentre altri potranno solo stare a guardare e proseguire una lenta agonia. Gli esclusi sono circa 600. Si assegnino 550 milioni anche a loro e, in particolare, a iniziative finalizzate a far crescere le università del Sud. Queste risorse dovrebbero essere vincolate a un progetto di sviluppo da verificare con scrupolo nelle sue fasi di attuazione (non è giusto dare soldi a chi non dimostra di volersi impegnare seriamente nella didattica, nella ricerca, nella terza missione) e sarebbero comunque significativamente inferiori (rispettando così l’idea del premio ai più meritevoli). A tutti verrebbe però offerta la possibilità di migliorare.

Dignità

Il tema della dignità di chi lavora nell’università e per l’università è altrettanto importante. Non sto parlando della parola d’ordine intorno alla quale si è mobilitato, fino ad arrivare allo sciopero, un numero importante di colleghi, uniti nella giusta protesta contro il blocco degli scatti di anzianità. Sto parlando del silenzio che continua ad avvolgere lo sfruttamento sistematico del lavoro e delle speranze delle persone che uno stipendio semplicemente non lo ricevono o sono comunque costrette a un precariato che si conclude troppo spesso e dopo troppi anni nel nulla. Bisogna avere il coraggio di stabilire una volta per tutte che chi insegna all’università non può farlo gratuitamente o per compensi simbolici. Così come non possono esserci docenti che entrano in un’aula per fare lezione a qualche centinaio di studenti. Se ci sono delle esigenze da coprire, si facciano i concorsi per assumere nuovi professori. Se non si vogliono i concorsi, si chiudano i corsi. Aggiungendo 350 milioni alla quota dei primi 550 da destinare alle assunzioni si potrebbe aprire davvero una pagina nuova e garantire la continuità del ricambio generazionale, trovando magari anche una soluzione meno pasticciata di quella inserita nella Legge di bilancio per il problema degli stipendi e degli scatti.

Fiducia

La terza parola sulla quale investire è la fiducia come premessa di una cultura della collaborazione e dell’integrazione anziché della competizione a oltranza. I professori universitari sono pagati per fare ricerca (ed è anzi questa l’unica attività che, alla resa dei conti, «fa classifica»), ma molti devono farlo a proprie spese, perché viene considerato un sintomo di fiacchezza morale, parassitismo e protervia di casta anche solo immaginare che ci sia un minimo finanziamento «di base» e non competitivo destinato a questo scopo. Viene curiosamente negato ai docenti delle università quanto si è ritenuto necessario per quelli delle scuole, che hanno ricevuto un bonus di 500 euro per le loro attività di aggiornamento. Vorrei allora 200 milioni per dare ai professori la possibilità di dimostrare che per lavorare bene, anche nella prospettiva del servizio ai loro territori e alla comunità nazionale, non hanno bisogno di essere ossessivamente controllati, misurati, classificati, considerati con il sospetto che si riserva a potenziali malfattori. Una parte di questa cifra dovrebbe essere assegnata a ogni docente per spese legate al suo lavoro di ricerca, da effettuare liberamente e poi rendicontare (chiarendo in modo inequivocabile quali sono le spese sostenibili e prevedendo la sospensione del finanziamento nel caso di una prolungata «inattività» dal punto di vista della produzione scientifica). Una parte dovrebbe andare a integrare queste risorse (che sarebbero comunque modeste) quando i professori decidono di utilizzarle insieme, anche per iniziative di promozione culturale e di terza missione senza immediate ricadute economiche. Questi fondi si aggiungerebbero così a quelli messi a bando per progetti di ricerca specifici, che richiedono inevitabilmente procedure di valutazione e selezione.

Equità

Restano 400 milioni (500, se assumiamo come riferimento la cifra indicata dal Presidente Grasso). Queste risorse le assegnerei a politiche di equità. La qualità del sistema universitario pubblico è la prima garanzia per il raggiungimento di questo obiettivo e dunque anche le prime tre parole che ho proposto sono da leggere in questa prospettiva: un’università gratuita ma senza qualità non sarà frequentata da chi si può permettere altro e non potrà mai funzionare come ascensore sociale per i capaci e meritevoli privi di mezzi. Guardando ai fattori che creano maggiore disagio alle famiglie, è francamente arduo mettere le tasse universitarie davanti alle spese sostenute da uno studente fuori sede, per citare solo il problema di gran lunga più importante. Non è dunque difficile riconoscere le priorità, che sono infatti da tempo all’ordine del giorno (dei buoni propositi, non dei provvedimenti concreti): le borse di studio per tutti coloro che ne hanno diritto, le strutture residenziali, i trasporti, ma anche le attività di orientamento e collegamento con il mondo della scuola, per evitare o almeno contenere il rischio che le inefficienze e le asimmetrie che si distribuiscono lungo la filiera della formazione si traducano in altrettanti vettori di marginalità ed esclusione per l’accesso all’università. Ben venga, naturalmente, anche l’ampliamento del numero di coloro che vengono esonerati da ogni pagamento, continuando però a chiedere un contributo (anche più alto, a fronte di un servizio migliore) a chi se lo può permettere. Quante cose si potrebbero fare con un miliardo e mezzo, ovviamente anche distribuendo le cifre in modo diverso. Senza mai dimenticare che quando parliamo di unità, dignità, fiducia ed equità non pensiamo soltanto a un’idea di università. Pensiamo a un’idea di società, andiamo alla radice dei «rapporti» fra i cittadini indicati nei Titoli della prima parte della Costituzione e li orientiamo a uno scopo, a una forma di vita collettiva costruita intorno a diritti di libertà e doveri di solidarietà. Temo purtroppo che l’università non avrà queste risorse. E non credo che questa idea di università e di società uscirà rafforzata dalla campagna elettorale. Servirebbero atteggiamenti dai quali la politica mi sembra sempre più lontana: sobrietà nel linguaggio, serietà negli impegni e nelle promesse e la pazienza della via lunga del confronto e di una riflessione attenta a tutti gli aspetti di problemi complessi. Oltre alla consapevolezza che l’università conta. Questo il Presidente Grasso lo ha detto con chiarezza. Si può ripartire da qui. E c’è bisogno di idee coraggiose e nuove.
*docente di Etica sociale a Tor Vergata