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Università: più quattrini e meno riforme

Impazza e amareggia un populismo antiaccademico (ridicolo anche nei numeri: riguarda un corpo sociale di 50.000 persone, lo 0,1 % della popolazione, cui è difficile ascrivere il core businness corruttivo della società italiana) che serve solo a delegittimare università e ricerca e a legittimare il disimpegno dei bilanci pubblici dall’affrontare gli annosi problemi di sottofinanziamento del sistema universitario italiano.

11/10/2017
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ROARS

Eugenio Mazzarella

Un’indecorosa vicenda di gestione dell’Abilitazione scientifica nazionale (un carrozzone nato male, e gestito peggio da Anvur e Miur, come da anni la comunità accademica diffusa denuncia inascoltata) ha campeggiato su tutte le prime pagine dei giornali. E fatti risalenti a 5 anni fa (su cui la magistratura saprà fare ogni opportuna chiarezza) sono riusciti a prendere la copertina del Tg3 prima delle preoccupanti elezioni in Germania, dei missili coreani e iraniani, del siluri alla vicenda Consip, dell’incapacità di varare una legge elettorale.

La sfortuna vuole che questa ribalta negativa abbia coinciso con il successo dello sciopero in atto dei docenti per una più generale “dignità”, anche salariale, del loro ruolo, e i primi tiepidi annunci che nella prossima finanziaria qualcosa avrebbe potuto esserci a questo scopo. Aperti i giornali, la Ministra Fedeli, al netto della concessione di rito che la gran parte del sistema è sana, ha annunciato misure anticorruzione di concerto con l’Anac, e vedremo se manterrà l’attenzione adombrata al recupero dei cinque anni di carriera fin qui negati alla tanta parte “sana” del sistema. Lasciando ai giudici il loro lavoro e all’Anac il suo, con grande convinzione (chi scrive è stato promotore dell’inserimento nella legge Gelmini della norma che vieta assunzioni di parenti e affini fino al quarto grado nei dipartimenti), vorremmo ricordare al Ministro e all’opinione pubblica i problemi e le necessità della tanta parte “sana” dell’università e della ricerca italiana, che è tanto inefficiente nella produzione di talenti da esportarne paradossalmente a iosa all’estero con successo. Punto dirimente. Come pure dirimente, è il fatto che anche moltissimi di quelli che “restano” sono bravi. E sarebbe il caso che qualcuno lo dica. All’università, a naso i parenti sono nella media di altri settori, e almeno a partire dalla norma su richiamata hanno la vita più difficile che altrove nella società italiana.

Impazza e amareggia un populismo antiaccademico (ridicolo anche nei numeri: riguarda un corpo sociale di 50.000 persone, lo 0,1 % della popolazione, cui è difficile ascrivere il core businness corruttivo della società italiana) che serve solo a delegittimare università e ricerca e a legittimare il disimpegno dei bilanci pubblici dall’affrontare gli annosi problemi di sottofinanziamento del sistema universitario italiano.

Ricordo a chi lo avesse dimenticato che mentre si approvava la legge Gelmini, appoggiata da Confindustria e altri meno trasparenti “ambientini”, riforma che ha dato il colpo di grazia all’università italiana, sui muri di Roma campeggiavano manifesti di An, allora al governo, con la ramazza contro i “baroni”. Si sono visti gli effetti, e non vorremmo essere ancora al quel punto. La Ministra Fedeli non si preoccupi di dare “dignità” all’università italiana, che deve saper darsela da sola, ma le dia i fondi per farle recuperare dignità competitiva nel panorama internazionale della ricerca. Dignità che da decenni si regge nonostante tutto, proprio per l’intrinseca dignità di motivazioni e dedizione della grandissima parte di chi vi lavora. Affronti la Ministra Fedeli i problemi veri, o almeno più veri – sul piano strategico – di comportamenti indegni certamente da stroncare.

La recente vicenda del numero chiuso per i corsi di laurea umanistici alla Statale di Milano, misura giustamente impugnata dagli studenti e sospesa dal Tar, è stato un indice significativo (e solo l’ultimo tassello) del puzzle della crisi mal gestita dell’università italiana dalle improvvide “riforme” iniziate con la legge Gelmini, peggio applicata di come pur male fu concepita. Una situazione cui – bisogna aggiungere, assumendosi tutte le responsabilità del caso – l’università, a cominciare dalla sua governance, non ha saputo dare risposte adeguate. Nel migliore dei casi, provando a limitare i danni, in un quadro di accettazione sostanziale, come ineludibile, della ristrutturazione al ribasso dell’università italiana in essere da decenni. Una ristrutturazione che la ha “rimpicciolito” negli organici, nelle iscrizioni, nella capacità di erogare formazione di qualità, e anziché rinvigorire il sistema nelle sue zone di criticità (che ci sono), con un uso distorto dei criteri di “merito” e di “valutazione”, si è risolta e si sta risolvendo nella concentrazione delle (poche) risorse a disposizione dell’università e della ricerca in una ristretta cerchia di atenei e di centri di ricerca sostanzialmente al Nord. E fondamentalmente nelle aree scientifiche e medicali più prossime all’immediata redditività della ricerca applicata. Una miopia che pagheremo a caro prezzo, smontando un sistema che indicatori usati in modo non prevenuto, e orientato a legittimare questo “rimpicciolimento” guidato (male) del sistema, ci dicono che ha ancora una sua intrinseca qualità (la “fuga dei cervelli” all’estero ne è il primo indicatore intuitivo).

Sul punto basta guardare gli algoritmi di assegnazione del miliardo e trecento milioni ai dipartimenti “migliori” deciso dal governo per verificare come gli atenei del Sud, e le aree umanistiche dappertutto, ne usciranno a pezzi. E questo nel silenzio colpevole di troppi. Anche di presunte classi dirigenti. Mentre è ancora fresco l’obbrobrio della proposta delle cattedre Natta, volta a fornire organici di qualità “superiore” reperiti per lo più all’estero, gestiti in ticket con il governo nel migliore dei casi, alla solita rete di atenei forti al Nord, anche privati (tanto per aggirare anche il favor costituzionale per il sistema statale della formazione). Proposta finora seppellita (speriamo definitivamente) dal residuo orgoglio dei docenti “indigeni”, che farebbero meglio a chiedere quelle risorse (ingenti) per finanziare un migliaio in più all’anno di posizioni in ingresso nell’università a giovani ricercatori.

L’università ha necessità di erogare formazione di qualità da un lato, e dall’altro di aumentare il numero dei laureati. Per far questo servono risorse, cioè docenti. E strumenti idonei per sceglierli al meglio, che non paiono essere i criteri proposti dall’Anvur, criteri importati da pratiche che altrove stanno, dopo averne misurato gli effetti deleteri, abbandonando. Dai troppi corti circuiti del sistema italiano della ricerca e della formazione superiore si esce solo rifinanziando gli organici e le strutture, non tagliandoli come si fa da lustri. Finanziando il diritto allo studio. Ripensando il raccordo tra lauree triennali e specialistiche. Rilanciando il sistema nel suo complesso. E non “chiudendone”, per lento strangolamento, le zone di difficoltà abbandonate a se stesse. Sulla corruzione facciamo fare alla magistratura il suo lavoro, ma non usiamolo per non fare il nostro, cioè credere all’università dei nostri figli. Qualche tempo fa Ainis ha sostenuto che all’università italiana vanno dati più quattrini, e meno riforme. Siamo d’accordo.