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Via all’ultima maturità con il «quizzone»

Oggi prima prova scritta per oltre 500 mila studenti. L’esperto: ma per l’università contano di più i test

20/06/2018
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Corriere della sera

Antonella De Gregorio

Ansia da foglio bianco, dubbi grammaticali, integratori e notti insonni: tutto alle spalle. I giochi sono fatti e da oggi circa 509 mila studenti sono impegnati nell’esame di maturità: l’ultimo dell’era Berlinguer-Fioroni. Si parte con il tema di italiano, inizio alle 8.30, sei ore a disposizione. Domani, seconda prova, di durata variabile a seconda delle discipline di indirizzo. La terza — di solito domande a risposta aperta e multipla — è prevista lunedì 25. Infine, la discussione di una tesina multidisciplinare. «Niente ansia, mettetecela tutta», è l’appello del ministro Marco Bussetti agli studenti.

Dal 2019 (riforma Fedeli) si cambia: salta il «quizzone»; via la tesina, sostituita da una conversazione per accertare «competenze, capacità argomentativa e critica e l’esposizione delle attività svolte in alternanza scuola-lavoro»; obbligo di aver partecipato alle prove Invalsi (ininfluenti sul voto) per essere ammessi all’esame. Ma qual è il valore della maturità per i giovani? Un fatto epico, un rituale vuoto? Per Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, è «una prova che struttura la personalità e fortifica». «Mette gli adolescenti di fronte ad adulti ai quali devono far comprendere la loro capacità di gestire il momento dell’esame, il loro saper essere, oltre alla preparazione», sostiene.

Un cambio di status, che però non prepara la strada per il futuro perché non certifica le competenze effettivamente possedute dal diplomato: «Per entrare in università oggi contano più i test che la carriera scolastica», dice Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti, esperto di valutazione. Che mette sotto accusa un esame che «continua a replicare un modello di tipo scenico», in cui «il candidato deve esibire se stesso davanti a una commissione e che non serve a far emergere capacità e inclinazioni». In altri tempi — sostiene — aveva un senso, oggi non più. Resta però il folclore, l’ansia rituale, l’interrogarsi sulle tracce che capiteranno, che sia Pirandello, l’immigrazione o i 70 anni della Costituzione. E il risultato, compresso in un numero, fornisce solo un’impressione che alle università non serve. «Infatti, a pochi mesi dall’esame di Stato si replica con i test, da Medicina a Economia». Una conferma dalle statistiche: 4 studenti su 100 non vengono ammessi all’esame e i bocciati non arrivano all’1%. «Ma non vuol dire che la scuola italiana sia un diplomificio — replica Mario Rusconi, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi del Lazio —. È frutto del lavoro degli insegnanti nei 5 anni delle superiori e soprattutto durante il primo biennio, quando i ragazzi sono guidati a studiare con motivazione e impegno. Chi arriva alla fine sicuramente è abbastanza preparato».